Giuseppe D’Angelo

LA CHIESA DEL GESÙ E LA MISSIONE DEL 1649

IN CASTELLAMMARE DI STABIA

Il centro antico di Castellammare di Stabia è ricco di chiese, basti pensare che in poche centinaia di metri ve ne sono addirittura sei: la Cattedrale, l'Oratorio, il Purgatorio, del Gesù e Maria, di San Bartolomeo e di Santa Maria della Pace.

Noi, in questa sede, soffermeremo l'attenzione su quella del Gesù e Maria, una chiesa ricca di storia, arte, religiosità.

 

Fondazione

Il Collegio dei padri della Compagnia di Gesù, dal titolo di Santa Maria del Soccorso e l'attigua chiesa del Gesù, furono fondati per merito del Comune, del Vescovo e di Pier Giovanni Nocera, un privato.

Difatti il 9 aprile 1608 la città deliberò di invitare a Castellammare i Padri Gesuiti per fondare una Chiesa e Collegio, donando per loro sussidio ducati 300 l'anno, riscattabili con 4000 ducati. Chiese anche il Regio Assenso, che venne concesso il 7 aprile 1609.

Nella delibera comunale sono anche spiegati i motivi, poiché i Gesuiti «con la solita diligenza faranno quel che d'essi si spera, tanto nelle prediche quanto nell'imparare delle virtù li figlioli d'essa Città nella lloro Scola di Umanità». Pertanto il 22 agosto del 1609 la Città stipulò la convenzione con i Padri Gesuiti.

Dal canto suo il vescovo di Castellammare, Ippolito Riva, lo stesso giorno, previa autorizzazione della Sede Apostolica, assegnò per la costruzione tutti i beni lasciati dal fu notaio Giovanni Scarrocchia.

Ma decisivo fu il contributo di 13.400 ducati, donati da Pier Giovanni (Pirrus Joannis) Nocera (Nucera) al Rev.mo padre Claudio Acquaviva, Preposito Generale della Compagnia di Gesù, rappresentato dal Padre Provinciale Geronimo Barisone.

Nell'atto notarile è esplicitamente affermato che il titolo di S. Maria del Soccorso fu imposto dallo stesso Pier Giovanni Nocera: «Praefatus vero Pirrus Joannis sponte asseruit coram nobis, et dicto Patre Provinciali praesenti etc. se ipsum Pirrum Joannem propter amorem quem de continuo gessit, pro ut ad praesens gerit erga dictam Societatem Jesus, et ejus Reverendos Patres, ac propter devotionem quam habet erga divam Mariam dello Soccorso deliberasse et disposuisse in acie ejus mentis construi facere in praedicta Civitate Castrimaris de Stabia Collegium Societatis Jesus sub titulo Sanctae Mariae de Soccorso».

La venuta dei gesuiti a Castellammare così ci viene descritta da una cronaca coeva:

«A dì 24 de dicembro [1609] che fò la vigilia de Natale se pigliò possessione dalli Gesuine [sic] et se posse sopra affisso il nome de Giesù sopra le porte delle case de Luca Coppola e de don Gentile Coppola fratelli, et io don Nardo Antonio Longobardo, parochiano [parroco] de Santo Nicola [a Mezzapietra] l'ho visto che saglievano dallo Viscovato con una compagnia tra la quale ge era Natale Cuomo, don Giovan Angelo Longobardo, clerico Felice Longobardo, clerico Vicienzo Saldante, et altri a hore dodici e mezza circa che proprio se affisse il nome de Jesù per mano de no Giesuino et così laudammo Iddio tutti quanti insieme, però la sera avante andaro li Gesuine a dormire a queste case et dopo andaro dove hoge se ritrovano a dallà a pochi giorni venderno quello loco li Giesuiti a Giovan Andrea Coppola e se ne andaro a comprare quello dove habitava Giovan Leonardo Vaccaro et fratelli, dove hogi abitano, et comprarono quello de Fabio Vaccaro dove hanno edificato la Ecclesia con quello de Claudio de Apuzzo».

Facciata lato mare del Convento nel 1624

Va evidenziato, però, che la venuta dei gesuiti in città fu particolarmente osteggiata da tutti gli ordini religiosi: domenicani, francescani, cappuccini, carmelitani, minimi, che temevano per la diminuzione delle proprie rendite. Gli stessi, difatti, si erano rivolti al vescovo chiedendogli l'emanazione di un breve per non «permettere che se fundi il detto Collegio [...] che tende in loro detrimento, per venirse a togliere il concorso de le loro Chiese, e così a scemare l'elemosine, e il vitto».

La città reagì chiedendo, il 3 settembre 1609, l'intervento di Ranuccio Farnese, feudatario di Castellammare. Tra i vari motivi addotti a favore della venuta dei Gesuiti si rileva «che se mai gionse oportuna [...] la venuta di detti Padri in detta Città, serà tale, già che per la mala condotta di giovani quasi avvezzi a vivere senza freno, e per le gare di Cittadini se ritrova mezzo divisa, per non dire rivolta sossopra, e ne la gionta di quelli se spera nce seguirà ogni bona disciplina e quiete».

La chiesa, e il Collegio furono realizzata su progetti del gesuita Pietro Provedi (1563-1623), architetto della Provincia Napoletana e, dopo la sua morte, modificati da Agazio Stoja (+1656), nuovo architetto della Provincia gesuitica.

Pier Giovanni Nocera si interessò attivamente alla costruzione della chiesa e convento. Difatti il 16 novembre 1610 egli rese il conto al Padre Provinciale Geronimo Barisone delle spese fatte per le fabbriche.

Il 28 maggio 1614 Pier Giovanni Nocera ebbe convenzione con l'appaltatore edile Giovanantonio d'Ambora stabilendo i "prezzi e patti" per la fabbrica della chiesa.Pianta della chesa e convento nel 1624

Con atto, poi, del 14 gennaio 1617 furono comprate "pietre di Posillipo" per la costruzione della chiesa.

 

Vi è notizia che nel 1617 già dodici padri abitano nel collegio e che molte persone ancora vengono ivi ospitate. Difatti il 28 settembre di tale anno Pier Giovanni Nocera, rivolgendosi al padre generale dell'Ordine in Roma, si lamenta «per li passaggi di gente da Sorrento e da Massa e da Napoli per questi luochi», anche perché non di religiosi si tratta ma di "secolari", e che quindi «si raddoppia la spesa. Quando è necessario sarebbe sciocchezza la mia di volere impedire l'usanza e la carità della Compagnia; ma intrattenersi o venire per ricreazione molti e spesso si potrebbe dare qualche ordine». Le fabbriche, difatti, non sono ancora terminate ed i mezzi economici cominciano a scarseggiare.

Infine il 5 ottobre 1619 Pier Giovanni Nocera appalta la costruzione del «braccio del Collegio dalla parte della marina».

Per più di un secolo e mezzo, quindi, i gesuiti esercitarono il loro ministero in città, influenzando, a volte in modo decisivo, molte scelte politiche e amministrative.

A mo' d'esempio credo sia opportuno riportare una minuta cronaca di una Missione da essi attuata nel 1649, un anno dopo la celebre rivoluzione, detta di Masaniello, che sconvolse il napoletano.

La missione del 1649

Nell'Aprile del 1649, a richiesta del vescovo Andrea Massa giunse in città una Missione di tre padri gesuiti.

La cronaca di tale evento è riportata da una fonte bibliografica e da una documentaria.

La documentaria, consistente in una relazione manoscritta di 5 folii, forse di mano del padre Bartolomeo de Rogatis della Compagnia di Gesù, stabiese, è conservata ancora inedita presso l'Archivum Romanum Societatis Jesu (ARSI), a Roma.

Relazione manoscritta del 1649

La fonte bibliografica è costituita da un volumetto intitolato: Relatione della Missione fatta da Padri della Compagnia di Giesu nella Città di Castell'è mare di Stabia l'Anno 1649 nel mese d'Aprile scritta da una Persona Religiosa e testimonio di vista.

L'autore sembrerebbe anonimo, ma in una nota ad un volume, opera di Tommaso de Rogatis, che descrive il Santuario di Pozzano, è detto: «Missione di Castellam. dell'an. 1649 scritta dal P. Bartolom. de Rogati suppresso nomine, stamp. in Nap. per Egid. Longo 1650». Per cui l'attribuzione a Bartolomeo de Rogatis appare certa.

Le due stesure sono notevolmente diverse, anche se gli avvenimenti narrati sono gli stessi. Più essenziale e asciutta quella manoscritta, pedante ed infarcita di retorica la stampata.

Evidentemente le due relazioni erano dirette ad un pubblico diverso e dovevano sortire effetti diversi.

Difatti la manoscritta era indirizzata ai Superiori dell'Ordine, per cui doveva narrare la cronaca essenziale degli avvenimenti. Quella stampata era diretta al pubblico, quindi doveva suscitare emozione e voglia di redenzione in chi l'avesse letta.

Noi, in questa sede, le utilizzeremo entrambe, sia per ricostruire quale fosse lo schema di una Missione gesuitica nel secolo XVII, sia per narrare la cronaca cruda degli avvenimenti susseguitisi in città.

La Missione, richiesta dal vescovo Andrea Massa al Padre Francesco Mascambruni, Provinciale della Compagnia di Gesù nel Regno di Napoli, era formata da tre Padri che «a 15 d'Aprile arrivorno ... nella Città di Castell'à mare a cavallo sopra animali somarini" e "andorno subito a riverire l'Illustrissimo Vescovo Monsignor Andrea Massa et a baciargli genuflessi la mano».

A questo punto l'autore della pubblicazione si duole della presenza di due circostanze sfavorevoli, che per fortuna svanirono. Infatti il vescovo era ammalato e «le continue e abbondantissime piogge che scendendo in quei giorni impetuose dal Cielo senza mai cessare, haverebbero impedito il concorso della gente, che dovea intervenire alla prediche». Ma il vescovo guarì e nel pomeriggio della domenica 18 aprile «si rischiarò di repente l'aria con serenità veramente prodigiosa».

Inutile dire che nella relazione manoscritta non vi è traccia di tali avvenimenti.

Stemma dei Gesuiti

La Missione, dunque, ebbe inizio nella Cattedrale, la seconda domenica dopo Pasqua, cioè nel pomeriggio del 18 aprile 1649.

La sera della domenica la Cattedrale era piena di gente, insieme con il Vescovo, tutto il Clero e il Capitolo. La predicazione fu tenuta dal pulpito dal capo della Missione, il celebre padre Saraco, che «con un discorso sensatissimo della morte fè tutti avvisati del fine incerto della propria vita».

Il Padre accompagnava le sue parole mostrando, di tanto in tanto, un «horribil teschio d'un morto ... a cui la corrutione del tempo havean prodigiosamente lasciato la nera e arsiccia pelle alle nude ossa attaccata, che pendendo all'una parte e dall'altra con efficace e muta favella, quasi a bandiere spiegate predicava le miserie funeste della nostra mortalità».

Quando la tensione fu al culmine, improvvisamente entrò in cattedrale una processione di bambini tra i dieci e i dodici anni, che si battevano «le spalle ignude con discipline e con funi».

Vanno, a questo punto notati i termini "discipline e funi", per indicare il "flagello", cioè quella sferza fatta di funicelle sparse di nodi o di strisce di cuoio terminanti con palline metalliche, usata all'epoca come strumento di penitenza.

Il pubblico, quindi, ebbe compassione di quei ragazzi innocenti e provò vergogna per loro stessi che erano peccatori.

Quando la commozione toccò l'apice, furono fatte uscire le donne e si coprirono tutte le vetrate della chiesa con panni scuri. A questo punto, secondo un copione assodato e sperimentato in numerose altre occasioni, «si fece con gran compuntione di cuori e spargimento di lacrime» una «lunga e aspra disciplina», cioè tutti i presenti si fustigarono la schiena e quant'altro con i "flagelli".

Un altro Padre, poi, seguìto dalla processione di uomini e ragazzi fustiganti, uscì dalla Cattedrale e si recò nei luoghi «più frequenti e sospettosi della Città, ne' quali si conosca il bisogno maggiore».

S. Ignazio da Loyola

Questa prima e cruenta giornata suscitò, però, molte critiche.

Alcuni dicevano che la Missione era inopportuna, perché avveniva dopo Pasqua, quando si era «bastantemente sodisfatto all'obligo della Chiesa con confessioni e communione», né si poteva sperare che chi non aveva ubbidito alla voce di Dio, potesse ora ubbidire a quella degli uomini.

Altri aggiungevano che i Padri si promettevano molto da una Città «libera e non avvezza a certe dimostrazioni esterne» e che invece di pianto avrebbero causato "riso e beffa".

Anche i religiosi criticavano la Missione e, in particolare, i mezzi medioevali che si usavano per la sua riuscita.

Ma generalmente vi era una grande attesa e grande curiosità per come »sarebbe andato a terminare il negotio».

Per la Missione furono designate la Cattedrale e la Chiesa del Gesù da poco edificata, nelle quali furono coperti tutti i finestroni con panni neri «perché la luce materiale da quel fosco honore ingombrata aiutasse meglio i cuori tutti in se stessi raccolti a ricevere lo splendore e il raggio della spirituale». Insomma un modo elegante per giustificare un'abile messa in scena.

Il giorno dopo, lunedì, iniziarono le confessioni, e fu tale il concorso di gente che voleva pentirsi dei propri peccati che in una settimana si confessarono circa ottomila anime.

Fu tale la paura della morte suscitata dai Padri gesuiti che perfino «il Governatore della Città di Natione Spagnuolo maturo d'anni e di senno se n'andò a piedi ignudi con un Crocifisso nelle mani, dirottamente piangendo alla Chiesa de Padri Dominicani, che sta quasi un mezzo miglio lontano dalla Città in un'erta e rilevata collina» (chiesa di Santa Croce).

Nella chiesa del Gesù erano state tolte tutte le sedie e al loro posto sistemate delle grandi tavole di legno poggiate su due massi, e tutt'intorno, per terra, teschi e ceri accesi, quasi un piccolo cimitero.

I nobili, accorsi in un primo tempo solo per curiosità, non vollero mischiarsi con il popolo, e se ne stavano o in fondo alla chiesa o nelle cappelle laterali appoggiati alle balaustre. Ma fu tale l'abilità del Padre predicatore e l'esempio dato ancora una volta dal Governatore che, toltasi la spada, mantello e collare «si pose in ginocchioni avanti al Padre e chiese la penitenza» consistita nel baciare i piedi a cinque popolani, che anche tutti gli altri nobili scoppiarono in lacrime e invocavano gravose penitenze, tanto che «se i Padri spirituali havessero voluto condiscendere a' desideri e a' prieghi di ciascheduno non si sarebbe veduto altro che sangue e carneficine». Davvero un quadro, a dir poco, apocalittico.

«Il Martedì dalla Chiesa del Giesù vennero mortificati alcuni artisti e marinari alla Chiesa vescovile con teschi di morti in mano, senza collare cercando perdono pubblicamente» per gli scandali dati per la città.

Il mercoledì mattina nella Chiesa del Gesù giunsero i preti per fare gli esercizi spirituali e il Primicerio del Capitolo, (Diego Coppola) "gentilhuomo de principali" chiese di fare per primo la penitenza. «Onde pigliò il Crocefisso incatenato con corda al collare seco altri gentili huomini giovani valorosi incatenati andorno al Vescovado e cercava ogn'uno perdono delli scandali dati a tutte le donne stavano in chiesa con lagrime e gran compuntione, insino al Sindico vecchio. Cercando i figli di famiglia perdono alle madri in ginocchioni e quelle li benedicevano».

Nel pomeriggio «uscì dall'Oratorio del Collegio del Gesù una processione de figlioli gentil'homini con le croci in spalla et coronati di spine. Un'altra di figlioli similmente scolari di un Prete battendo le loro innocenti carni con discipline ... Un padre della Compagnia portava il Crocefisso et un'altro andava da dietro, ambedue mortificati coronati di spine, fino al collo, et con gran modestia».

Ratio Studiorum

Il giovedì mattina, dopo i "soliti esercitii" nella chiesa del Gesù, partì «verso il Vescovado una catena di sette sacerdoti, l'Archidiacono», per non essere secondo al Primicerio, «con sei Canonici, senza collare, incatenati ad una fune, il primo di esso portava il crocefisso...».

Tra gli innumerevoli esempi di pacificazioni e accordi intervenuti con la Missione, viene riportato il caso «d'un gentilhuomo assai noto per esser uno de principali e più conosciuti della Città. Era costui un di quei pesci grossi che nel mare di questo mondo le reti della predicazione evangelica a gran fatica sogliono trarre al lido. Si haveva goduta e appropriata più anni la moglie d'un povero Cittadino con pubblico scandalo della Città: nè mai o per ragioni, o per prieghi s'era lasciato indurre a licenziarla», tanto che il marito aveva tentato di ucciderla per salvare il proprio onore, ma la ferita non era stata mortale. «Hor questo gentilhuomo havendo assistito alle prediche e a gli esercitii spirituali nella Chiesa del Giesù, compunto nel più chiuso del cuore dello scandalo dato, e del torto altrui fatto, per emendarlo con una esemplare e lodevole penitenza, una mattina ritrovato a caso il marito di colei che egli contro ogni legge e ragione si teneva per amica (sic), prostratoseli a' piedi in presenza di molti, tutto bagnato di lagrime, gli disse: "Ecco qui colui che t'ha tolto l'honore, uccidimi, che son contento, nè temere castigo alcuno, perché ti fò da questo punto la rimessione, ti restituisco tua moglie per mai più vederla non che toccarla, e oltre di ciò t'offro cento docati per suo mantenimento, e ti cerco perdono dell'ingiuria che t'ho fatta"». Il povero marito, non credendo alle sue orecchie si prese la moglie e i cento ducati, innalzando lodi a Dio e ai Padri gesuiti.

Tra coloro, poi, che si incatenarono vi fu il caso di due «Clerici d'anni venticinque, che all'usanza de nobili del paese portavano zazzere e chiome lunghe. Uno di costoro ... cavato un paio di forbici disse al Padre: già che V.P. m'ha fatta la gratia d'eleggermi tra schiavi di Maria Vergine, voglio appunto in forma di schiavo con barba e capelli rasi tutto il tempo di mia vita servirla». E subito iniziò a tagliare tutti i capelli. Ma il Padre gesuita lo fermò ed «egli stesso con le proprie mani gli tagliò parte della zazzera e de mostacci». Tale esempio seguì anche l'altro chierico. Il Vescovo, che era presente, volle conservare quelle ciocche di capelli «tra le sue cose di maggior preggio», in ricordo di tale conversione.

Vi fu, inoltre il caso di una nobile, Caterina Aversana, che perdonando pubblicamente l'assassino (Tonno da Pozzo) di suo marito, da me identificato in Andrea de Comparato, fece in modo da far rappacificare le famiglie nobili della città, che si erano divise a favore dell'uno o dell'altra.

Ma riprendiamo la cronaca degli avvenimenti.

Il Venerdì si formò un'altra catena con tutti i Canonici, l'Arcidiacono e il Tesoriere che dalla chiesa del Gesù andò processionalmente al Vescovado. Qui un altro Padre predicava alle donne la passione del Cristo e «per mezz'hora continua non si fe' altro che piangere e dare percosse al petto, et anco schiaffeggiandosi la faccia con più fervore che se fossero stati huomini».

Nel pomeriggio solita processione con tutto il Clero e Capitolo «mortificati con varie mortificationi, senza mantello e senza collare, fune al collo e coronati di spine, coperti di cenere". "Un gentil'huomo di casa Longobardo andò a spartire alcuni spagnoli con cittadini, un soldato spagnolo le diede alcune piattonate et il gentil'huomo se li buttò alli piedi, il soldato spagnolo confuso similmente chiese perdono».

Il sabato mattino processione di fustiganti, con in testa Giovanbattista Serra principe di Carovigna «giovane di gran bontà di vita e amabilità di costumi». Di sera si fece l'adorazione della Croce, con piccola processione. «Monsignore trascinò la lingua per terra con la cappa magna e scalzo. Poi il Padre, fune al collo e scalzo, havea cura della disciplina, e dopo il Vicario e Capitolo senza collaro e senza mantello. Il Signor Governatore spagnolo, senza mantello e collaro, e senza spada trascinò la lingua, facendo capo alla Città tutta, cantando i musici di Palazzo il miserere, con lacrime e devotione indicibile». Il tutto, immagino, con gran copia di ceri e teschi.

Teschio

La domenica mattina vi fu comunione generale. Il vescovo comunicò "di sua mano" i nobili, i chierici «e molte gentildonne si communicorno con funi al collo; fecero le donne pianti amari sopra di un Crocefisso grande posto ben adornato sopra una bara». Di pomeriggio si fece la «processione universale di penitenza» alla quale parteciparono i Padri della Compagnia di Gesù «che in tutto furono tredici, un fratello andò crocefisso, li Padri scalzi coronati di spine, Signori e Signore scalze coronate di spine...».

La cronaca manoscritta dà più particolari. La riportiamo per far capire qual era il clima suscitato da sette giorni di Missione. «Si ha da avvertire come nella processione universale di penitenza il Vescovo andò con la Cappa Magna e cappuccio in testa, corda al collo, scalzo e crocifisso in mano. Seco andavano i musici di Palazzo, come Falconio, Carluccio di Giovan Jacovo, Carluccio Mannella, un altro spagnolo et altri similmente coronati di spine e con corde al collo cantando il Miserere avanti il Crocifisso, portato da sacerdoti scalzi sopra di una bara grande coverta con una ricca coltra di seta. Una signora del terzo ordine di S. Francesco fece capo a tutte l'altre monache scapigliate, coronate di spine, e scalze dietro al lor sposo Crocifisso. A queste seguivano le Vergini nobili secolari, e l'altre populane similmente mortificate ut supra. Dopo la statua della Madonna del Pianto, seguivano le Signore accasate e vedue coronate di spine, corda al collo sopra il manto, scalze, fra le quali alcune si mortificavano con vestire di colore cinero ... e piangenti ... A tante penitenze della città tutta si compunsero li due monasteri di Monache, si tagliorno i capelli ... Publicamente due meretrici nella Chiesa Vescovale si sono tagliati i capelli e ritirate a vita buona».

Monsignor Arcivescovo di Sorrento che, molto saggiamente, aggiungiamo noi, «la vide stando incognito, restò stupito per la moltitudine e per l'ordine». Così, a proposito della presenza dell'Arcivescovo di Sorrento, che era Antonio del Pezzo, si esprime la relazione manoscritta.

Quella stampata, invece, afferma che il prelato sorrentino era giunto, da Napoli, per caso a Castellammare, non sapendo della Missione, e vedendo i buoni frutti che produceva «si dolse di non esser venuto prima, e di non havere all'hora la Cappa Magna per potere intervenire scalzo alla processione di penitenza: volle però vederla di luogo eminente e secreto; e vedendola non fè altro tutto il tempo ch'ella durò che piangere di tenerezza». Così, nella relazione destinata al pubblico, viene giustificata l'assenza, o meglio "l'incognita" presenza dell'Arcivescovo sorrentino.

La sera, infine, fu innalzato un palco avanti la Cattedrale e, alla presenza dei tre padri della Missione, del Vescovo e del Sindaco, molti pubblicamente perdonavano i propri nemici, le cosiddette "remissioni". «Una persona civile per schiavitudine della Madonna comparve sopra del palco con mozzetta e bordone in habito di pellegrino e promise partire quella settimana istessa per Loreto e altre chiese divote, come fece».

Salì successivamente quel nobile Tonno da Pozzo, che aveva ottenuto il perdono da Caterina Aversana, «tutto pentito e mortificato accompagnatovi da suoi parenti e amici ... con gran sentimento di dolore cercò perdono a tutti, confessando il suo errore,» e in espiazione della sua colpa promise che per il resto della sua vita «sarebbe stato sempre ritirato».

Dopo altre innumerevoli confessioni e pentimenti, si alzò il Padre Predicatore «che tutto di panni neri coverto si rendeva riguardevole e venerando». Questi tenne una fosca predica sulla morte e l'inferno, tanto sentita dal pubblico che «tutti piangevano, tutti urlavano e tutti fremevano con tal sentimento di cuore, con tal vehemenza d'affetto, ch'era maraviglia come non crepassero di dolore. Le percosse del petto, della faccia, della testa erano tali, e si gagliarde, che ne rimbombava l'aria molto lontano". Si vide perfino un bambino di quattro o cinque anni "battersi con le sue manine sì fortemente la faccia, che la maggior parte del sangue gli era corso su le quance per uscir fuore». Il Predicatore accompagnava le parole spargendo al vento granelli di cenere, raccolti in un bacile d'argento, che si posavano «su le teste e vesti de gli adunati» dando loro l'impressione del giudizio universale. Ma la giornata, purtroppo, non era ancora terminata.

«Nel fine della predica fu condotta sopra del palco una braciera d'ardenti e vivi carboni, dentro la quale con applauso de gli Angioli, e tormento de Demonij, furono sacrificati alle fiamme i libri d'amore, le lettere impudiche, le canzoni lascive; le memorie e segni profani d'innamoramenti e dishonestà, quanto un tempo cari e amati, tanto al presente abborriti e odiati. E oltre a ciò molte altre ribalderie di sortilegij, di maleficij, di fattucchiarìe, di stregherìe, di superstitioni diaboliche, che a vista di quell'udienza, che con gran contento ciò rimirava, e benediceva Dio, che in quell'atione trionfava gloriosamente dell'Inferno, se ne andarono in fumo».

Bisognava, ora, impartire la generale benedizione, poiché «era già il Cielo tutto oscuro per le tenebre della sopragiunta notte». Quindi il Predicatore, dopo essere stato benedetto dal Vescovo, «alzatosi in piedi, con parole che uscivano dal profondo del cuore, benedisse tutta quella udienza, che riconosceva quella beneditione appunto come beneditione di Dio, bramando in quell'articolo chiudere gli occhi e partire da questo mondo, stimando sicuramente che sarebbe volata dritto al Cielo. Qui terminò la Domenica e il termine prefisso alla Missione».

Ma tale fu il successo, che i Padri si trattennero in città un'altra settimana, anche per istruire il Clero su queste nuove "tecniche" di predicazione.

«E questo è quello che assai brevemente mi è parso di toccare intorno alla Missione fatta da Padri della Compagnia nella Città di Castell'à mare; nel che son sicuro d'essere tanto lontano dall'havere amplificato e esaggerato, che ogni uno che vi si è ritrovato presente dirà che io hò detto molto poco rispetto al molto che essi hanno fatto e veduto, a lode di Dio e della Gloriosa sempre Vergine Madre Maria. Amen».

E, su suggerimento dei Padri gesuiti, il Vescovo eresse in Parrocchia la chiesa dello Spirito Santo nel rione Fontana.

Claudio Acquaviva

Dopo appena cinque giorni, il 30 aprile 1649, il vescovo scriveva al padre Francesco Mascambruni, Provinciale della Compagnia di Gesù nel Regno di Napoli, che gli aveva concesso la Missione, per ringraziarlo. Nell'occasione gli inviava anche una brevissima relazione, di tre paginette, sui risultati ottenuti.

Non mancano notizie sugli avvenimenti rivoluzionari del 1648: «La Nobiltà se' riconciliata col Popolo, el Popolo con la Nobiltà, rimettendosi ogni offesa passata ne rumori dell'anno precedente». Notizie amministrative: «E' divisa questa Città, come la maggior parte dell'altre, in Clero, Nobiltà e Popolo, et in tutti questi tre ordini e gradi hanno meravigliosamente campeggiato le misericordie divine, in maniera che non ho avuto nè haverò mai in vita mia tempo più felice, nè di maggior consolatione di questo, quanto ho veduto co' proprij occhi tutt'il mio ovile santificato».

E conclude: «Di tutto devo ringratiarne pienamente Dio benedetto e poi la P.V. che mi ha concorso con tanta benignità. Di Castell'amare li 30 Aprile 1649. A. Vescovo di Castell'amare».

Con l'espulsione dei Gesuiti dal Regno di Napoli e Sicilia, attuata con decreto del 4 novembre 1767, e dopo alterne vicende, la chiesa fu ufficialmente consegnata, per atto del not. Agnello Buonocore, il 24 agosto 1786 dal Comune di Castellammare alla Comunità del Molto Reverendo Clero, rappresentato dai sacerdoti don Giacinto d'Avitaya e don Francesco del Giudice.

Il Clero

«La Comunità del Clero semplice della città di Castellammare si compone di tutti i sacerdoti della città, non esclusi i parrochi, ed eccettuati solamente i Sacerdoti del Clero della Chiesa Cattedrale, cioè i Canonici, e gli Eddomadari, che ottennero l'approvazione formale degli Statuti, o regole nell'anno 1801, mediante Real Decreto spedito a' 28 Gennaio, qual Decreto venne seguito da un Decreto di esecuzione per parte della Curia Capitolare portante la data de' 19 Aprile dell'anno istesso».

Inoltre, con conclusione del 18 dicembre 1821, San Filippo Neri fu proclamato protettore del Clero.

Questi sacerdoti, in una cinquantina d'anni, modificarono notevolmente l'aspetto interno della chiesa, ma, per fortuna, con gusto e misura, per cui noi oggi riusciamo ancora ad intravederne le primitive forme secentesche.

In particolare il Clero, con deliberazione del 26 giugno 1800, decise di vendere l'antico organo del '600, perché ritenuto troppo piccolo, e, quindi il sac. don Salvatore Dattilo, a nome del Clero, diede incarico all'artefice organaro Benedetto de Rosa, di Napoli, di costruirne una nuovo più grande (l'attuale) , per una spesa di 170 ducati, vendendone il vecchio per 34,12 ducati.

Nel 1812 adornò la chiesa con l'altare maggiore, la balaustra e le due cappelle vicino al presbiterio di marmi pregiati; nel 1826 fu edificata l'attuale sacrestia; nel 1835 furono restaurate le due cappelle vicino all'ingresso e rifatto il frontespizio della chiesa; l'anno successivo fu costruito il coro in legno di noce.

Negli anni tra il 1839 e 1841 furono affissi alla Porta Maggiore della chiesa, a cura del Comune, «i due Emblemi, quello cioè della Città e quello del Clero», opera dell'architetto e pittore stabiese Giuseppe Filosa.

Pianta odierna della chiesa

Descrizione storica della chiesa

La chiesa, è a navata unica, «larga palmi 43 e lunga palmi 81 fino alla balaustra che chiude il presbiterio che è a pianta semicircolare, di 37 palmi di lunghezza e 36 di larghezza. E' alta 64 palmi, coperta da una volta di fabbrica, a botte nella navata e a scodella nella cona. I pilastri sono 22 e son ricacciati per l'intero circuito della chiesa. Viene illuminata la Chiesa da sette finestroni, uno de' quali sulla porta, quattro nella navata, e due nella cona».

Gli altari sono cinque, cioè, l'Altare maggiore, ed altri quattro esistenti in quattro cappelle, due a destra e due a sinistra della navata.

Sulla porta maggiore si osserva «un bel quadro grande ad olio su tela, del de Matteis, rappresentante S. Ignazio e S. Francesco Saverio dinanzi al sommo Pontefice, che conferisce a questi ultimi il breve della missione».

Nella nicchia posta nel vano di rimpetto alla porta che conduce alla Sagrestia vi era nel 1833 «una statua di S. Stanislao Kostka col Bambino nelle braccia, due puttini e due teste di Serafini, quale statua nell'anno 1823 fu fatta eseguire a proprie spese da vari divoti, cioè D. Antonio Mereghini, D. Giovanni Grossi, D. Domenico Maresca, e D. Raffaele Casaregola (?), e da' medesimi donata alla Chiesa».

«L'organo è fisso, situato nel Coretto del lato sinistro (con le spalle all'altare maggiore) della navata, e fu fatto eseguire dal Clero nell'anno 1800 mediante spesa di duc. 160, come da atto del 16.7.1800».

Il Coro del principe Barberini

Questo coretto e l'altro di fronte furono rifatti nel 1790 dal principe Urbano Barberini che era proprietario del palazzo al lato della chiesa.

Egli ottenne privilegio dal Re Ferdinando IV (il 17.5.1790) di costruire un ponte coperto, ancora esistente, che collegava la sua abitazione alla chiesa e da quest'ultimo coretto poteva seguire le funzioni sacre.

Quando, poi, suo figlio Maffeo Barberini vendette il palazzo, con atto del 2.1.1817, a Michele Cioffi, anche quest'ultimo voleva servirsi del ponte e del coretto. Il Clero produsse ricorso al Re che, nel consiglio del 18 febbraio 1818, dichiarò che «il predetto privilegio dovea considerarsi come personale, e perciò inalienabile».

Tutto l'interno della chiesa fu rifatto dai mastri stuccatori Agostino Bacchetti di Milano e Andrea Spagnuolo di Castellammare, su progetto dell'architetto Catello Troiano, i cui disegni furono, poi, modificati dall'architetto Onorato Greco. I lavori, iniziati nel 1829, terminarono nel 1832.

Al termine dei lavori la chiesa fu riconsacrata dal Vescovo Angelo Maria Scanzano il 19 novembre 1839.

Si annota perfino la presenza del Re e di tutta la Real famiglia in occasione della Festa del Carmine del 1825.

 

Altare Maggiore

Altare Maggiore e balaustra di marmo

 

I marmi dell'Altare Maggiore e la balaustra «esistevano prima nella Chiesa del Convento de' Frati Domenicani di Angri sotto il titolo dell'Annunziata; quale chiesa dopo la soppressione del Convento avvenuta nel tempo dell'occupazione militare, venne donata da quel governo a' Sigg. D. Carlo, e D. Roberto Filangieri, da' quali appunto il Clero nell'anno 1812 comprò que' marmi per duc. 330, avendosene speso altri duc. 191,32 per il trasporto, e la positura in opera

Alle spalle dell'altare maggiore vi è un quadro «che è ad olio, di palmi 13 per 8 rappresentante la B.V. del Rifugio, opera, per quanto si crede, di Luca Giordano, o della sua scuola».

Questo altare fu dichiarato privilegiato per tutti i giorni ed in perpetuo con Rescritto Apostolico del 18 giugno 1823.

La Vergine del Soccorso, olio di L. Giordano

«Essendosi smosso il Reconditario dell'Altare Maggiore si riconsacrò li 10 Novembre 1851 da Monsignor Petagna».

 

Nel pavimento del presbiterio vi sono due ricordi marmorei.

A sinistra:

 

D.O.M.

IN AEDE CATHEDRALI

VETUSTI SEPULCRI IURE RETENTO

UT CORPORATORUM OSSA QUIESCANT

UBI SACRA FECERE

HOC ALTERUM MONUMENTUM

COLLEGIUM SACERDOTUM STABIAN

CONST, C,

M. S. EXT. N.S.

AN. EM. CHRIST. MDCCLXXXVI

 

A destra:

 

 

A.M.

DOMINICUS OCTAVII DE PUTEO

PATRIT STAB AB MATRE AVERSANA

AVIISO: CAPUANA, ET CAPANA,

SUO, SUORUMQ: CINERI URNAM

QUAM

IN GENTILITIO S. CRUCIS SACELLO

NON INVENERAT,

HIC SACRATIORE IN LOCO

FELICI DISTANTIA, OBTINUIT

AN. SAL. HUM. MDCLXXXII

Prima Cappella

a) Descrizione storica

Dal lato destro entrando, la prima era dedicata a San Francesco Saverio, ed era di patronato della famiglia Cuomo, come da lapide sepolcrale del 1748. Aveva già nel 1785 l'altare e la balaustra di marmo.

Vi era sull'altare una tela grande ad olio con l'immagine di San Francesco Saverio, e nei due muri laterali altre due tele relative alla vita del Santo.

Tutti i lavori di abbellimento furono fatti nel 1832 a spese del clero «perché i compatroni non ne vollero fare niente».

b) Descrizione attuale

Al centro: sull'altare maggiore statua del Cuore di Gesù. A sinistra San Giuseppe col Bambino Gesù (alla base dell'altare vi è scritto: A.D. 1906).

Ai lati dell'altare stemmi della famiglia Cuomo, titolare della cappella.

A terra, al centro, una lapide marmorea del 1748, del tutto illeggibile, che inizia: "In Memoria......".

La Cappella, prima dedicata a San Francesco Saverio, è oggi dedicata al Cuore di Gesù.

SECONDA CAPPELLA

a) Descrizione storica

La seconda, prima intitolato alla SS.ma Croce poi alla Vergine del Carmelo, «colla sua statua situata nel nicchio». E' di patronato della famiglia d'Apozzo «cioè degli eredi del fu D. Antonio, che hanno la sepoltura nel presbiterio in cornu epistolae colla iscrizione dell'anno 1772».

Era stata concessa dai Gesuiti a Francesco Maria da Pozzo il 6 dicembre 1618, per atto del not. Marcello de Rosa (prot. fol. 118).

Vi è la Statua della Madonna del Carmine portata dai carmelitani, mentre prima era dedicato alla SS.ma Croce e alla Madonna Addolorata.

Infatti il 24 aprile 1793 fu stipulata una convenzione tra il Clero e i compatroni Ottavio e Antonio da Pozzo per dedicare la Cappella alla Vergine del Carmine. Fu tolto dalla cappella l'antico quadro della Madonna Addolorata e vi fu costruita la nicchia, "ornata di marmi colorati", per la statua, ad opera del mastro marmoraio Marco Antonio Pelliccia di Napoli, per una spesa di duc. 380. L'altare e la balaustra di marmo furono costruiti negli anni 1792-93 a spese della famiglia d'Apozzo e del Clero, per un importo di Duc. 400, cioè duc. 160 dai patroni e duc. 240 dal Clero.

Madonna del Carmine

Questa cappella, insieme con la sepoltura in corno dell'Epistola, con atto del 16 novembre 1833, per not. Michele Bruni, fu donata da Vincenzo da Pozzo al Rev.do D. Catello Cotticelli.

 

b) Descrizione attuale

Sull'altare maggiore statua della Vergine del Carmelo. Ai lati gli stemmi della famiglia da Pozzo.

E' dedicata alla Madonna del Carmine.

A terra vi è una lunga lapide, del tutto illeggibile, che inizia con: "Aloysiae Longobardi....".

In alto, a sinistra, vi è il seguente ricordo marmoreo:

CLERUS POPULUSQUE STABIENSIS

VIRGINEM MARIAM DOMINAM NOSTRAM SUB TITULO A MONTE CARMELO

MAXIMA RELIGIONE ARDENTIQUE FIDE

AB AEVO COLUERUNT

AD MAIOREM DEI GLORIAM AD DECUS ET ORNAMENTUM BEATAE VIRGINIS

MAGIS MAGISQUE AUGENDUM

PROMOTORE PASCHALI RAGOSTA EPISCOPO CASTRUMARIS STABIARUM

PRAECLARE STATUE EIUSDEM VIRGINIS

DECRETUM PRO CORONATIONE OBTINUERE

ANNO MCMXXXIII A.D. XVII KAL. SEXTILES

SOLLEMNI RITU AUREAM CORONAM SACRATISSIMO CAPITI

EX RMI CAPITULI VATICANI MANDATO

IMPOSUIT

In altro a destra, altra lapide

DECURIONES POPULUSQUE STABIENSIS

PERVETUSTAM PULCHERRIMAMQUE STATUAM

BEATISSIMAE VIRGINIS MARIAE

MULTIS ABHINC ANNIS ALIA IN ECCLESIA VENERATA

SUB TITULO A MONTE CARMELO

QUIPPE QUI IN MAXIMIS PERICULIS

MATRIS PIETISSIMAE

VALIDUM AUXILIUM EXPERTI ESSENT

ANNO MDCCLXXXVI A.D. III KAL. NOVEMBRES

SACERDOTUM STABIENSIUM COETUI

SALLEMNITER DONAVERUNT

DEVOZIONE VERSO LA MADONNA DEL CAMINE.

Nel 1785 l'Amministrazione Comunale proclamava la Madonna del Carmine protettrice della Città, «e ne incaricò il Clero di promuoverne il culto e la devozione nella chiesa di Gesù e Maria del Carmelo». Il Clero nel 1786 ottenne anche la Indulgenza Plenaria coll'Altare Privilegiato e, nel 1810, istituì il Mese Mariano.

TERZA CAPPELLA

a) Descrizione storica

La seconda a sinistra, è dedicata alla Vergine Addolorata. E' di patronato delle due famiglie Longobardi, cioè quella degli eredi di Francesco e quella degli eredi di Gabriele, entrambi come eredi di Pietro Aniello Longobardi, «di cui si parla nella lapide sepolcrale del 1748 e di Gabriele Longobardi seniore, di cui si osserva il rilievo in marmo coll'analoga iscrizione nel piè dritto sinistro della cappella».

Questa Cappella, infatti, era stata concessa, con atto di not. Marcello de Rosa del 13.11.1617 a Francesco Coronato e, poi, riconcessa dai PP. Gesuiti, nel 1750, al barone Pietro Aniello Longobardo, per atto del not. Mattia Imperato.

Precedentemente era dedicata a San Luigi.

Intanto nel 1818 era stata «introdotta nella medesima chiesa per cura del Rev.do Sacerdote D. Raffaele Raffone, in allora Predicatore annuale, la devozione verso la SS.ma Vergine Addolorata, devozione nobilissima ...» e non trovandosi un sito opportuno «si chiese alla famiglia Longobardi, patrona della cappella, l'autorizzazione per dedicarla alla Vergine Addolorata». Avutone il consenso, il 16 agosto 1821 ne fu stipulata la convenzione. Pertanto fu rimossa la tela raffigurante «varie immagini, cioè, di Maria SS.ma col Bambino, S. Giuseppe, S. Luigi Gonzaga, e S. Stanislao Kostka, opera di Paolo de Matteis», e sistemata nell'antisacrestia. Al suo posto fu scavata la nicchia per contenere la statua dell'Addolorata. La cornice di tale nicchia fu impreziosita di marmi colorati dal mastro marmoraio Gaetano Lamberti «e l'opera fu perfettamente eseguita, come tuttora si osserva», per una spesa di duc. 436,75.

Maria SS.ma col Bambino, S. Giuseppe, S. Luigi Gonzaga, e S. Stanislao Kostka, olio di P. de Matteis

Sulle mura laterali della cappella vi erano sin dal 1785 due tele raffiguranti l'una San Biagio e l'altra San Girolamo e l'altare di marmo con la balaustra anche di marmo.

b) Descrizione attuale

Sull'altare maggiore statua della Madonna Addolorata.

Ai lati dell'altare maggiore stemmi della famiglia Longobardi.

In alto la seguente iscrizione: ALT PRIV QUOT ET IN PERP.

A destra, sull'altarino datato 1909, statua di San Nicola.

A sinistra statua di San Stanislao Kostka, ove, in basso, vi è la seguente iscrizione:

CAELESTI CONSORTIO IUNGATUR

ANIMA PIENTISSIMA PRESBYTERI STABIENSIS

ALOISII VOLLONO

QUI POMPEIIS OBIIT A.D. MCM

AETATIS SUAE LXXX

BASILICAE B.M. VIRGINIS DE ROSARIO

PAENITENTARIUS

NUNC IN PULVERE DORMIT

EXPECTANS BEATAM SPEM

HOC LOCULO AERE SUO EXTRUCTO

Sul bordo laterale destro della cappella vi è il busto marmoreo di Gabriele Longobardo con la seguente iscrizione:

D.O.M

ET MEMORIAE GABRIELIS LONGOBARDI

QUEM

TRIUM IMPERATORUM DUARUMQ. IMPERATRICIUM

GRATIA CLARUM

TUM PIETAS TUM DOCTRINA CLARARUNT MAGIS

UNDE ET AULICAE BIBLIOTHECAE PRAEFECTUS

ET CAROLO IMPERAT. HNVI A SANCTIORIBUS FUIT

CONSILIIS

V.A. LXXXII D.O.A. AER MDCCXXXXVII

EIUS CUM CINERES VIENNAE AD D. STEPHANI

HONORIFICAE CONDITI QUIESCANT

PETRUS AGNELLUS LONGOBARDUS BARO VILLAE NOVAQUE

EX FRATRE NEPOS BONORUM HAERES

HEIC PIETATIS GRATIQ. ANIMI M.P.

A terra vi è una lapide illeggibile, forse del 1788.

QUARTA CAPPELLA

a) Descrizione storica

Già dedicata a S. Ignazio, fu dedicata dai Carmelitani alla Vergine Annunziata nel 1784. Vi erano l'antica statua della Vergine e quella dell'arcangelo San Gabriele. Era di patronato della città.

Difatti con atto del 6.12.1784 vi si trasferì dall'antica chiesa la statua dell'Annunziata: «Cappella di S. Ignazio non da lungo tempo ridotta a Cappella della SS.ma Annunziata dalli passati patroni di questo Pubblico, siccome i PP. suddetti (i Carmelitani) in presenza nostra han detto».

Sennonché da una comunicazione, datata 30 dicembre 1881, del Rettore della chiesa del Gesù al Sindaco, apprendiamo che nella detta cappella vi sono «due statue di legno della Vergine e dell'Arcangelo Gabriele rappresentanti il mistero dell'Annunziazione titolo della detta cappella» e che «essendosi intanto le suddette due statue per vetustà marcite anzi ridotte in polvere» si chiede l'intervento dell'Amministrazione Comunale presso la famiglia Del Giudice, patrona della Cappella, affinché provveda.

Sin dal 1785 l'altare e la balaustra erano di marmo, insieme con due tele ad olio nelle mura laterali raffiguranti due atti della vita del Santo. Sull'altare una tela di S. Ignazio che riceve da San Francesco Saverio il breve della missione. Nel 1830 vi è la statua di cartone a mezzo busto di S. Alfonso Maria de' Liguori.

Questo altare fu dichiarato privilegiato con Rescritto Apostolico del 30 aprile 1825.

Tutti i lavori di abbellimento furono fatti a spese del Comune su progetto dell'architetto Camillo Ranieri dell'11 ottobre 1833.

La Cappella, con conclusione del 29 maggio 1836, fu dedicata a Santa Filomena.

Con verbale del 25 febbraio 1836 la Cappella fu ceduta dal Comune alla famiglia del Giudice.

b) Descrizione attuale

Sull'altare maggiore statua dell'Annunziata. Ai lati dell'altare stemmi della Compagnia di Gesù IHS.

A destra, sull'altarino datato 1907, statua di Sant'Alfonso.

Sul pavimento vi è la seguente lapide:

HIC IURIS HOSPITIO

DE GENTE DEL GIUDICE

OSSA IACENT

ANNO DOMINI MDCCCXXXVI

La Gloria di Cristo, di V. Galloppi

 

IL VANO CENTRALE DELLA CHIESA

Nella chiesa si osservano sei tondi a fresco del Mozzillo, rappresentanti ciascuno una coppia di angeli che porta un simbolo della Vergine, a cui si aggiunsero nel 1832 quattro nuovi medaglioni nel presbiterio, opera del "figurista pittore" Giuseppe Viraldi; sulla porta d'ingresso una tela del De Matteis, raffigurante S. Ignazio e S. Francesco Saverio che ricevono il breve della missione dal Pontefice; sull'altare maggiore un dipinto della B. V. del Rifugio, opera attribuita a Luca Giordano.

Nel 1865 il Clero rifece le basi delle colonne e la zoccolatura di marmo, insieme con il pavimento di marmo.

Negli anni 1895-95 il Clero decise altri lavori di abbellimento.

Difatti il 1 gennaio 1895 fu inaugurata l'abside, affrescata nella lunetta da Vincenzo Galloppi e che rappresenta "Il discorso della montagna". Il 16 luglio 1899 si scoprì la volta della chiesa, un tempo affrescata dall'Andreoli, ridipinta sempre dal Galloppi e rappresentante la gloria di Cristo "In nomine Jesu omne genuflectatum". Le sculture del soffitto furono eseguite da Gennaro Raiano, di Miano, le dorature e i finti marmi dei decoratori Francesco Galante e Gaetano Paolillo, di Napoli, e gli innumerevoli stucchi dei fratelli stabiesi Francesco e Lorenzo D'Apice. Il direttore dei lavori fu l'architetto prof. Gaetano Cappa.Il Discorso della montagna di V. Galloppi

 

 

 

A sinistra dell'entrata della chiesa vi sono due lapidi.

La prima:

 

D.O.M.

TEMPLUM HOC NOMINI IESU ET MARIAE SACRUM

AERE PROPRIO A PORPORATIS PRESBYTERIS IN EO CONGREGATIS

INSTAURATUM

MARMORIBUS NOVISQUE ORNAMENTIS

INTERIUS EXTERIUSQUE EXPOLITUM

ANGELUS MARIA SCANZANO STABIENSIS EPISCOPUS

UT HUJUSCE REI AUCTORIBUS GRATUM ANIMUM TESTARETUR

  TANTOQUE OPERI CORONAM IMPONERET

   XIII KAL. DECEMBRIS A. MDCCCXXXIX

      SOLEMNI RITU DEDICAVIT

       CUJUS CELEBRITATIS MEMORIAM

    DOMINICA POST PATROCINIUM B. VIRGINIS RECOLENDAM

     STATUIT

La seconda:

D.O.M.

PRIMO IAM SAECULO LABENTE

EX QUO CULTUS BEATAE MARIAE VIRGINIS SUB CARMELI TITULO

A PRESBYTERIS HOC IN TEMPLO CONGREGATIS

MIRIFICE SIT ADAUCTUS AC PROMOTUS

SOLEMNI RELIGIONIS RITU MAGNAQUE POPULI FREQUENTIA

POSTRIDIE IDUUM IULII TRIDUOQUE SEQUENTI

A SALUTIFERA MUNDI REDEMPTIONE ANNI MDCCCLXXXV

FESTIVI CONCELEBRANTUR DIES

NE PIAM DOMINAM ERGA MERITUS DEFERVESCAT HONOS

VEL QUAM MAXIME ASSURGAT IN POSTERUM

HUIUSCE SOLEMNITATIS MOMENTUM

IN SERAM USQUE AETATEM

TRADITUR

 

A destra dell'ingresso vi è stata da poco tempo collocata la tela restaurata di Paolo De Matteis raffigurante la "Sacra Famiglia con i santi Luigi Gonzaga e Stanislao Kostka".

Questa tela, rimossa dalla cappella Longobardo nel 1821, si trovava nell'antisagrestia.

SAGRESTIA

Anticamente vi era quella che oggi si chiama Antica Sagrestia che terminava al cancello di ferro guarnito d'ottone. Negli anni tra il 1826-27 il clero costruì l'attuale sagrestia, su progetto dell'architetto Michele Iennaco, per una spesa di duc. 2040.

Vi era situata l'antica statua di San Nicola di Bari «che è di scoltura», e quella di San Filippo Neri «di cartone innargentato a mezzo busto», ed anche «due statue di scoltura di San Sebastiano, una picciola ed un'altra grande, come anche un'altra picciola di cartone rappresentante il Salvatore riposto».

Nell'antisagrestia vi erano «due quadri di mediocre grandezza, il primo di S. Francesco Saverio, e l'altro di S. Luigi Gonzaga». Nella Sagrestia vi erano «tre piccioli quadri, il primo dell'Addolorata, ad olio su lastra di rame, situato sull'altarino a' piedi del Crocifisso, e gli altri due in tela situati ne' sovrapporte laterali all'altarino, uno della Vergine col Bambino, e l'altro di S. Giuseppe».

Vi era anche, in Sacrestia, una interessante tela del sec. XVII rappresentante San Catello, rubata nella notte tra il 23 e 24 agosto 1976 e ritrovata poi presso un antiquario, a Venezia, nel 1993. Oggi questa tela è stata collocata tra le due cappelle di sinistra della chiesa, in alto.

A proposito di questo dipinto è stato recentemente affermato che possa essere attribuito ad Ippolito Borghese a cui fu commissionato dai padri gesuiti.

Per quanto riguarda l'attribuzione al Borghese, non ho nulla da eccepire. Quello che mi lascia perplesso è l'ipotesi che l'opera fosse stata commissionata dai padri gesuiti per essere esposta in chiesa. Difatti in tutti gli inventari antichi della chiesa non vi è traccia di tale dipinto. L'unica ipotesi, forse, è che il dipinto si trovasse nel Collegio e non nella chiesa. Questa supposizione sembra la più attendibile, anche in riferimento alle modeste dimensioni del dipinto, che ne fanno più un'opera da camera che di chiesa. Ma resta un teorema indimostrato.

Attualmente in sacrestia vi è la statua di San Filippo Neri, un'altra statua dell'Immacolata, il crocifisso donato da Francesco Paolo Mollo. Vi è, inoltre, la copia in legno della lapide in bronzo esistente nella cappella di San Catello in Cattedrale.

Eccone l'iscrizione:

MODELLO DELLA TARGA IN BRONZO VOTIVA A S. CATELLO MURATA NELLA CATTEDRALE. ESEGUITA NEL R. CANTIERE SU DISEGNO DELL'ARTISTA V. GALLOPPI. A CURA DI ALCUNI SACERDOTI DI QUESTO M. R. CLERO.

INGENTI AQUARUM PLUVIARUM COPIA

AB INSTANTIBUS MONTIBUS IRRUENTE

NOCTE INTEMPESTA

XIV KAL. FEBRUARIAS AN. MDCCLXIV

STABIIS MISERRIME EXUNDATIS

SANCTUS CATELLUS PATRONUS

SERVATOR ET CUSTOS ADFUIT

TERTIUM AB ILLA INCOLUMITATE

ANNO QUINQUAGESIMO REDEUNTE

POSTER MEMORES GRATIQUE

EPISCOPO DIOCESANO CURANTE

XV KAL. FEBRUARIS AN. MCMXIV

QUI DIE EX VOTO MAJORUM

SACRA SOLEMNIA QUOTANNIS

PRO GRATIARUM ACTIONE CONCELEBRANT

TITULUM POSUERUNT

In alto, in sacrestia, vi è anche la seguente lapide marmorea:

SACRARIUM HOC VETERI ADIECTUM

QUO DISPONENDIS SACRIS

MELIOR LOCUS ESSET

SUA PECUNIA

PRESBYTERI STABIANI

A FUNDAMENTIS EXTRUXERUNT

A. D. MDCCCXXVI

Alla chiesa, poi, dal 1879, è annessa una ricca e preziosa biblioteca, il cui nucleo è costituito dai libri donati in tale anno dal sac. bibliofilo Luigi Calvanico cui, alcuni anni dopo si aggiunsero i fondi Cannavale e Rossi. Nel secondo dopoguerra la biblioteca si è arricchita di un fondo proveniente dall’antico Seminario diocesano. Conserva collezioni di teologia, scienze religiose, tra cui la Patrologia del Migne (serie latina e greca), collezioni di classici italiani, di storia e varia umanità. Si segnale un buon fondo dannunziano.

 

© Giuseppe D'Angelo 1998 - 2007

Pubblicato, con note, in «Cultura e Territorio», Annali del Distretto Scolastico 38, n. 15-16-17, Castellammare di Stabia, 2001

Le foto sono © di N. Longobardi

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