Angelo Acampora                                                                                       Giuseppe D'Angelo

STABIA E SAN CATELLO AL VI SECOLO

San Biase 'o sole pe' case,

Santu Catiello 'o sole po' castiello.

(Antico distico popolare stabiese)

1. Il Mistero San Catello.                                                                                                                                           Angelo Acampora

Avvolto nelle nebbie medioevali San Catello non ha mai smesso di far parlare di sé. Per i devoti egli rappresenta un'autentica certezza, per gli storici una sfinge dai molti enigmi.

Certo non abbiamo la presunzione di svelare il mistero San Catello in ogni suo aspetto, sarebbe umanamente impossibile. Però possiamo provare a rielaborare tutti i dati storici in nostro possesso e confermare, qualora ve ne fosse bisogno, che San Catello è stato un personaggio vero, che ha vissuto la realtà del suo tempo, assumendosi gravose responsabilità e che ci ha lasciato una traccia di sè ben più tangibile di quanto potevamo sperare.

Attraverso la tradizione orale, la fonte storica più antica e, purtroppo, la meno verificabile, San Catello viene riconosciuto come il protettore dei forestieri. Il motivo va ricercato nel significato che a quel tempo poteva avere. Dato per scontato che per forestiere al VI secolo non s'intendeva certo indicare un tipo di viaggiatore in gita di piacere, come accadde invece a partire dal XVIII secolo, quando esplose il Grand Tour in Italia, bisogna ricercarne l'archetipo inquadrando il periodo sia storicamente che geograficamente.

Nel 568 d.C. i Longobardi invadono l'Italia. Dividono alcune aree geografiche in ducati e, fatta eccezione per il ducato romano, che conserva la sua autonomia, si spingono al sud, dove fondano il ducato beneventano, i cui confini arrivano in Lucania.

In mezzo a questo vasto territorio occupato, un piccolo lembo di terra, che va da Cuma ad Amalfi, riesce, nonostante continue incursioni, a rimanere sotto il dominio bizantino.

Questo fenomeno si spiega col fatto che i Longobardi, non conoscendo l'arte marinara e, quindi, sprovvisti di flotta, non riuscivano a mantenere l'assedio a luoghi fortificati che avevano sbocco sul mare e da dove si poteva essere agevolmente riforniti e soccorsi.

Se i Longobardi non riuscivano a travolgere il nemico di primo impatto, come spesso accadeva, grazie anche all'apporto della famosa cavalleria, erano costretti a cingere le città d'assedio, cosa che non poteva protrarsi per lungo tempo per le difficoltà di approvvigionamento.

La piana del Sarno, che dobbiamo immaginare all'epoca solcata da un fiume (per grande capacità navigabile) e macchiata di paludi intransitabili, s'infrannge contro la barriera naturale dei Monti Lattari. Su tali altitudini era possibile ritirarsi e arroccare su dislivelli difficilmente accessibili allo scoperto, soprattutto alle manovre di una cavalleria.

Non è un caso che pochi anni prima, nel 552, i Goti al comando di Teia furono, proprio nella piana del Sarno, battuti definitivamente dall'esercito bizantino, comandato dal generale Narsete.

Stabia, come altri luoghi viciniori, divenne meta di profughi provenienti da territori caduti sotto la minaccia dei barbari. In questo contesto emerge la figura del vescovo Catello, che dobbiamo immaginare particolarmente sensibile alle disgrazie di chi aveva abbandonato ogni suo avere e, talvolta, familiari e persone care. E, d'altronde, quando i Longobardi scorrazzano per la Campania, mettendo a ferro e fuoco villaggi e cenobi benedettini (famoso l'assalto al monastero di Montecassino avvenuto tra il 580 e il 589), Sant'Antonino, ma probabilmente anche altri profughi, ripara a Stabia.

"San Catello protettore dei forestieri" ha avuto pertanto, almeno all'inizio, un significato più consono ad un uomo di chiesa di quei tempi. La fama che il Santo dovette acquisire fece sì che alla sua morte il popolo, che allora aveva sia la facoltà di eleggere il vescovo sia quella di proclamare un santo, lo designasse protettore degli sventurati in fuga dai luoghi natii.

Cambia epoca, mutano i costumi e le atmosfere, e San Catello, soprattutto nel XIX sec., periodo in cui la città di Castellammare attraversa uno dei suoi momenti più felici, sia culturalmente che economicamente, diventa il Santo protettore di quei forestieri benestanti, italiani e stranieri, che la prediligono come luogo di villeggiatura e la beneficiano, appunto, economicamente e culturalmente. Quei forestieri che portano tanto benessere vanno salvaguardati al punto da scomodare un Santo a loro tutela. La cosa può sembrare esagerata, ma non lo è. Basti pensare che non solo le autorità amministrative, ma finanche quelle giudiziarie, si guardavano bene dall'arrecare il benché minimo incomodo a un forestiere. Se un fuorilegge si rifugiava nella casa o nell'alloggio alberghiero di un forestiere, arrestarlo era impossibile. Una legge non scritta che, comunque, veniva applicata con zelo.

La più antica fonte manoscritta della vita di San Catello, alla quale fanno riferimento tutte le successive agiografie, risale alla fine del IX secolo. e la si deve ad un anonimo benedettino di Sorrento che in uno scritto liturgico narra della vita di Sant'Antonino. Se sulla strada percorsa da Sant'Antonino non si fosse trovato anche San Catello, noi oggi poco o nulla sapremmo di lui.

Qualche studioso, molto scettico al riguardo, ha supposto che questa cronaca potesse essere in parte apocrifa, ossia rielaborata ad uso e consumo di chi avesse avuto interesse ad esaltarne il culto. Non v'è dubbio che la tradizione scritta, così come quella orale, si sia arricchita nei secoli di elementi fantastici. Ma poi quale agiografia non lo è stata? Certo è che un alone di mistero ammanta molti aspetti della figura del Santo, a partire dal nome. Ma questo accade per molti altri Santi. Non volendoci allontanare troppo dal nostro territorio, basta citare come esempio la patrona di Minori, Santa Trifomena.

Catello rimane, anche nei secoli a venire, un nome esclusivamente locale. Un appellativo cucito addosso ad un personaggio dalle doti peculiari, che non poteva essere chiamato con un nome comune. Tra le varie ipotesi formulate sulla sua origine, una in particolare sembra trovare una giustificazione assai pertinente.

Siccome nessuno è più sensibile alle disgrazie altrui di chi le ha sperimentate, suo malgrado, su se stesso, si può dedurre che Catello fosse stato egli stesso un "forestiere", ossia un profugo. Ciò è spiegabile nel fatto che il territorium stabiese rimase sotto il dominio bizantino, mantenendo un intenso scambio commerciale e culturale con l'oriente e, in generale, con tutti i popoli che si affacciavano sul Mediterraneo. Catello potrebbe, quindi, aver avuto delle origini elleniche, come sembra indicare la stessa etimologia del nome da "Kata Ellas", ovvero "proveniente dalla Grecia". Un illustre esempio, quasi coevo, lo troviamo nel papa Bonifacio III (607) che era romano, ma di origine greca, come attestava il nome del padre Giovanni Kata-Antiokes, ossia proveniente da Antiochia.

Altra zona d'ombra dell'agiografia di Catello, sulla quale sembra impossibile far luce, è il luogo dove il Santo vescovo fu sepolto e le vicende legate alle sue spoglie e alle sue reliquie.

Come si è detto all'epoca era il popolo, cioè la comunità, che aveva il potere di santificare. Dopo l'avvenuta sepoltura, trascorso un po' di tempo, si provvedeva alla esumazione del cadavere, indi si procedeva alla cerimonia della translatio e dell'elevatio, che consisteva nel trasportare le spoglie dal luogo di sepoltura alla chiesa principale e quivi esporle alla pubblica venerazione, sistemandole su un supporto elevato dal pavimento.

In seguito, per evitare che i fedeli ne asportassero delle reliquie, si rese necessario racchiudere i resti del Santo in una cassetta di piombo, che in genere era della lunghezza di un metro, e murarla sopra l'altare maggiore. In questa occasione venivano staccate delle reliquie per esporle alla vista dei fedeli. Per motivi di sicurezza, poi, anche le reliquie venivano occultate.

Dell'esistenza di queste ultime ce ne dà notizia il gesuita padre Giuseppe Alvino, la cui testimonianza oculare ci attesta che esse erano visibili nel 1623. I resti del Santo consistevano in una parte del cranio, sul quale, in antichi caratteri longobardi, si leggeva: .stud est caput B. Catelli E..... stabiensis "mancandovi la I di Istud e l'ultime dell'altra, Episcopi per cagione del taglio fatto in dividerlo, come appare ad occhi veggenti."

Nel medioevo si ebbe una grande diffusione del culto e, quindi, della ricerca delle reliquie. A Bisanzio gli Imperatori, nel Sacro Palazzo, ne ammassarono a centinaia. Lo stesso Papa dell'epoca, San Gregorio Magno, scrive ai vescovi di Sorrento, Terracina, Portici, Napoli, Nocera, Ostia e Formia perchè gli mandassero le reliquie dei Santi Martiri, da collocare in una chiesa di nuova costruzione. Gli stessi Longobardi, ancor prima di convertirsi definitivamente al cristianesimo ne furono accaniti ricercatori.

Chi vuole avere solo la più pallida idea di cosa provocò questo macabro traffico può dilettarsi a leggere il Dizionario delle Reliquie di Collin de Plancy (1821-22), che si prese la briga di farne un seppur vago inventario. Dalla pedante catalogazione vengono fuori tali enormi assurdità da rimanerne sbalorditi. Un esempio per tutti: San Biagio vescovo e martire (Sebastopoli 316 circa).

Il corpo di San Biagio, per intero, veniva conservato nella sua città natale, con la particolarità di avere il dono dell'ubiquità, poichè contemporaneamente lo si poteva ammirare sia nella chiesa di San Marcello a Roma sia a Maratea. Altre parti considerevoli del corpo si trovavano a Brindisi, Ragusa, Volterra, Anversa, Malines, Lisbona e Palermo. Parti delle ossa erano dislocate a Mende, a Melun, in due chiese di Parigi, Lussemburgo, Maubeuge, Cambrai, nella maggior parte delle abbazie dell'Hinaut, dell'Artois e delle Fiandre, a Tournois, Gand, Bruges, Utrech, in 15 o 16 chiese di Colonia. Le teste, da sole, ammontavano a quattro, distribuite a Napoli, Orbetello, San Massimino in Provenza e a Montpellier. Di una quinta se ne erano perdute le tracce a Parigi. Per non parlare delle braccia, che in tutto erano otto: a Roma, Milano, Capua, Parigi, Campostelle, Dilighem, Champagne e Marsiglia.

Il principe longobardo Sicardo (che nell'835 assediò Sorrento) tentò con le armi d'impossessarsi del corpo di San Gennaro a Napoli e di quello di Santa Trofimena ad Amalfi.

Il timore, dunque, di vedersi trafugare le sante spoglie del proprio patrono costrinse le comunità a celarle in luoghi riservati, difficilmente accessibili soprattutto ai Longobardi.

La tradizione vuole che il più antico luogo di culto cristiano a Sorrento fosse un tempietto dedicato a San Renato e San Valerio. Una struttura alquanto angusta ricavata in una caverna incavata nella rupe e situata non si sa quanto distante dal nucleo fortificato della città.

Per farsene un'idea si pensi che il duca longobardo Rodoaldo, posto assedio a Sorrento circa il 645, faceva depositare all'interno del tempio dei doni per accattivarsi la benevolenza dei Santi, affinchè gli concedessero di espugnare la città.

Ora nel 1604, volendo i padri benedettini di Sorrento costruire una nuova e più ampia chiesa in onore dei due Santi vicino all'antico tempio, e facendo scavare all'interno del medesimo per recuperare materiale di risulta, trovarono sotto l'altare maggiore una lastra di marmo che copriva die piccole casse di piombo, contenenti ossa e polvere di San Renato e San Valerio.

Anche a Stabia si ritrova un tempietto dalle caratteristiche simili a quelle di Sorrento. E la cosa eccezionale è che esso ci è pervenuto, proprio grazie alle sue caratteristiche, pressocchè intatto.

Si tratta dell'ipogeo cristiano che noi oggi chiamiamo Grotta di San Biagio. Questo tempio è da considerarsi la prima cattedrale stabiese o, più correttamente, il più antico luogo di culto cristiano, ove venivano officiate le funzioni religiose. Una sorta di Arca dell'Alleanza piena zeppa di misteri.

Dall'esame dello studio dell'archeologo stabiese Giuseppe Cosenza, da quello di Francesco Di Capua e dall'analisi di alcune foto scattate di recente all'interno della Grotta di San Biagio, possiamo formulare alcune interessanti ipotesi per la soluzione di almeno tre enigmi fondamentali.

La Grotta di San Biagio si può dividere in due sezioni: una laterale, formata da lunghi e bassi corridoi, e una centrale, divisa a sua volta in tre parti, che assunse funzione di basilica, ossia di chiesa. Pertanto le tre parti che la compongono sono da identificarsi in:

a) Atrio (m. 6 x 2.90)

b) Navata (m. 14 x 3)

c) Abside (m. 13 x 4)

 

Nell'anno 870 Bernardo, un monaco francese di ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta, si propose di visitare i tre più celebri santuari dedicati a San Michele Arcangelo: sul Gargano, in Normandia, al Monte Aureo (attuale Faito). Solo che giunto a Stabia via mare non trovò la forza di ascendere al Faito, per cui visitò la Grotta di San Biagio, poiché anche qui, all'epoca, si venerava il culto di San Michele. Non è un caso, quindi, che il più maestoso affresco parietale che ritroviamo nella Grotta rappresenti proprio l'arcangelo, dipinto sicuramente prima dell'870.

Tutti gli affreschi che si trovano nella grotta sono disposti lungo il lato sinistro, mentre a destra l'intonaco è vergine. Segno evidente che l'opera di affrescatura non fu portata a termine. E se si considera che tutto il ciclo è stato eseguito in un unico arco di tempo, si può affermare che questo sia avvenuto non prima del VI secolo, poichè il santo più "anziano" ivi raffigurato è San Benedetto, morto appunto il 543.

 

Oltre a San Michele, San Gabriele e altri Angeli, la Madonna col Bambino e Gesù Cristo, gli altri Santi riconoscibili sono San Pietro, san Giovanni Evangelista, San Renato, Santa Brigida e San Benedetto. Rimangono inoltre altri tre Santi da identificare.

 

Il primo è una Santa dal nome sconosciuto, Tinniabula, che potrebbe essere una Santa locale della quale sia andata perduta ogni memoria.

Il secondo potrebbe essere San Mauro, discepolo di San Benedetto, e ciò è quanto affermarono sia il Cosenza che il Di Capua, i quali così interpretarono la seguente scritta di corredo all'effige:

- -

S V

C R

S VS

e cioè SANCTVS MAVRVS, mancando, a loro parere, nella parte superiore di VRVS la lettere M e A.

Ed ecco il primo enigma da risolvere. Stando al modo in cui è stata dipinta la scritta, risulta impossibile ipotizzare che al di sopra della V ci possano essere state altre due lettere. Inoltre, entrambi gli studiosi si contraddicono quando affermano che San Mauro è in abiti vescovili, poichè è noto che non fu nai vescovo.

Salvo un più attento esame da fare in loco, a noi sembra che da quella scritta venga fuori SANCTVS VRSVS, ossia quell'Orso, vescovo stabiese, che intervenne al Concilio Romano indetto da Papa Simmaco nel 499.

Nella cronotassi dei presuli stabiesi Orso precede San Catello ed è il primo vescovo di Stabia di cui si abbia memoria. E se, come si è detto, secondo l'antica usanza era il popolo ad eleggere il vescovo e a nominare il Santo, nulla vieta di pensare che anche per Orso, come per San Catello, si sia proceduto con la translatio ed Elevatio.

E veniamo al terzo Santo.

Nell'abside, sull'arco che sovrasta l'altare maggiore, vi sono cinque clipei circolari con figure. In senso antiorario vi sono effigiati a mezzo busto un probabile arcangelo Raffaele (secondo il Cosenza), l'arcangelo Gabriele, Gesù Cristo, l'arcangelo Michele e, sempre secondo il Cosenza, "un'ignota figura sacerdotale con barba bianca a punta, simile in tutto al San Renato della precedente parete."

Da notare che la figura è tutt'oggi ben conservata anche nella policromìa ed è l'unica priva di didascalia. Eppure anche il Di Capua non esita a darne un'identificazione in San Pietro. Chissà poi in base a quali elementi.

Ed ecco il secondo mistero da risolvere. Or dunque questa "ignota figura" non va confusa né col San Renato effigiato sulla parete precedente, dal quale differisce per i caratteri somatici e per l'abito vescovile, né con San Pietro, poiché in tal caso vestirebbe la tunica di apostolo, come si vede nell'altra pittura che correda la cripta.

L'ignota figura veste l'abito vescovile e, a nostro parere, si tratta quasi certamente di San Catello. Il che rappresenterebbe la più antica iconografia esistente del Santo. E il fatto che non vi sia una scritta che lo attesti è spiegabile col terzo e ultimo enigma da risolvere e cioè che proprio nell'abside, sotto l'arco con i clipei e sopra l'altare maggiore (forse l'originaria elevatio) vi era inumato il corpo del Santo. Infatti darne una palese indicazione poteva essere pericoloso a quei tempi, poichè, come si è detto, i Longobardi, durante le loro scorrerie, non esitavano a trafugare le spoglie dei Santi dai luoghi sacri.

 

A rafforzare questa ipotesi ci soccorre proprio il Di Capua che, secondo una nostra intima convinzione, dovette aver intuito tutto ma, chi sa perché, non ebbe l'ardire di essere più esplicito. E, infatti, ecco cosa egli scriveva: "In fondo all'abside, dove poi fu costruito l'altare, si vedono i resti di un'antica tomba, nella quale furono rinvenute delle ampolle, contenenti liquidi odores ... Quale personaggio illustre venne sepolto in quel posto, che, certamente, era il più onorifico di tutto il sacro recinto?"

Peccato che il Di Capua non ci indichi dove furono portati i resti contenuti in quella tomba, se mai furono spostati, poichè nel caso contrario avremmo la seppur remota possibilità di ritrovarli ancora. E pensare che per molti secoli è stata data la caccia alla sepoltura di San Catello. Molti vescovi stabiesi si sono dati da fare per far scavare per ogni dove, dal Faito all'attuale cattedrale, tranne che nella Grotta di San Biagio.

Così come abbiamo notizia che i Longobardi entrarono nella cripta di Sorrento, abbiamo la certezza che essi entrarono anche in quella di Stabia.

Nessuno mai, infatti, era riuscito a decifrare i graffiti che sono sul lato destro della Grotta di San Biagio, quella parete che non si ebbe il tempo di affrescare. Secondo la nostra ipotesi potrebbe trattarsi in gran parte di iscrizioni longobarde, databili tra la fine del VI ed il IX secolo, di significato divinatorio, magico e superstizioso, resi in caratteri runici, l'antico alfabeto germanico, che si scriveva da destra verso sinistra, ribaltando, a volte, perfino le lettere. E' appunto in questo modo che troviamo scritto, reso in caratteri latini, il nome MICHAEL.

Un notaio stabiese del XVIII secolo, Vincenzo d'Ayello junior, appassionato ricercatore di patrie memorie, ci ha lasciato scritto che dopo la morte di San Catello, avvenuta prima del 600 o proprio in tale anno, poiché è nel 600 che viene eletto vescovo Lorenzo, suo successore, Stabia fu sconvolta da una devastante alluvione. In questo frangente sembrerebbe che sia andato disperso il corpo di San Catello. Per la verità il notaio d'Ayello affermava che il corpo del Santo, dalla vecchia cattedrale sita a Varano (si tratta sempre della Grotta di San Biagio), sia stato trasportato in un'altra chiesa. E qui s'incorre in un equivoco, poiché non il corpo, che si doveva trovare murato nell'abside, ma soltanto la reliquia del cranio fu traslata.

Effettivamente si ha notizia che un autentico diluvio universale sommerse tutta l'Italia. Verona fu allagata dalle acque dell'Adige, i quartieri bassi di Roma da quelle del Tevere. Stabia probabilmente fu messa in pericolo dalle acque del Sarno e da quelle che venivano giù dai monti Lattari. Ma questo cataclisma avveniva nella seconda metà del VI secolo, San Catello vivente.

Ciò che di sconvolgente successe, invece, e che contribuì non solo a far perdere la memoria di dove era inumato San Catello, ma addirittura ad assopirne il culto per circa due secoli, fu una tremenda eruzione del Vesuvio, che avvenne nel 685.

Fuoco, lava e lapilli distrussero gran parte della piana del Sarno, il conseguente movimento sismico le piccole città. Probabilmente il terreno per molti decenni non riuscì a produrre quasi niente e alcune città in questo lasso di tempo rimasero desolate.

Non è un caso, quindi, che la cronotassi dei vescovi stabiesi s'interrompe nel 649 con Lubentino, per poi riprendere o con un dubbio Sergio nell'850 o con un accertato Stefano nel 986.

Quello di Stabia non è, però, un caso isolato; si pensi che lo stesso accadde per la cronotassi dei vescovi di Cuma, Pozzuoli e Sorrento.

Per Cuma s'interrompe con Pietro nel 680, per riprendere con Vitale nell'877. Per Pozzuoli s'interrompe con Gaudioso nel 680, per riprendere con Leo nel 1030. E per Sorrento abbiamo Giaquinto nel 680 e il seguente, Stefano, solo nell'870.

La mancanza del vescovo indicava non solo la scomparsa della comunità religiosa, ma anche dell'entità amministrativa. In poche parole la civitas non esisteva più.

Per avere un'idea chiara delle complesse mansioni che il vescovo acquisì proprio nel VI secolo, occorre citare la Prammatica Sanzione, emanata da Giustiniano nel 554. Con essa veniva applicato un ferreo sistema tributario, che imponeva, tra l'altro, la responsabilità collettiva dei contribuenti, esponendoli alle vessazioni e alla disonestà degli esattori.

Per la mancanza di uno Stato di fatto sul territorio italiano, si consentì che la Chiesa ne assumesse le funzioni. Per questo motivo ai vescovi furono delegati poteri che sino ad allora erano stati esercitati dai prefetti. Cioè ai vescovi furono attribuite funzioni di controllo e vigilanza sulle amministrazioni cittadine, laddove esistevano, altrimenti erano loro stessi ad amministrare la comune, assumendo persino funzioni giudiziarie.

A coadiuvare i vescovi in questi incarichi inediti, il Papa sostituì agli agenti fiscali di nomina imperiale, i diaconi, ai quali i coloni versavano il regolare canone in danaro o in natura.

E' in questo contesto e con queste nuove mansioni che San Catello si trovò a dirigere da vescovo la città di Stabia. E se dopo la sua morte il popolo lo volle santo, vuol dire che non solo gli venivano riconosciute elevate qualità religiose, ma anche indubbie doti di equo ed oculato amministratore. Per queste ultime, purtroppo, Catello si procurò dei nemici, i quali, per ottenerne una immediata sostituzione, lo accusarono di diffondere una "perniciosa eresia".

L'Anonimo Sorrentino parla di un suo familiare. Per gli agiografi questa vaga indicazione è bastata per orientare le indagini tra la famiglia del clero. E questo non senza un valido motivo, poiché l'Anonimo riferisce che quando Antonino giunse a Stabia, Catello "suo eum consortio familiarius associavit". Arbitrariamente, però, si è sostenuto che l'infame detrattore fosse stato un chierico o un primicerio e che addirittura se ne conoscesse il nome: un certo Rogerio o un tal Tiberio.

Secondo il Di Capua probabilmente egli fu un magistrato greco che nel vescovo Catello trovava un ostinato oppositore alle proprie ruberie. L'ipotesi ci sembra assai pertinente. Solo che se il Di Capua avesse tenuto conto della Prammatica Sanzione, avrebbe sicuramente trovato un accordo migliore tra il "familiare" e il magistrato greco, unendo queste due identità in una sola e, cioè, nel diacono, il quale, come si è detto, era sottoposto al controllo del vescovo.

All'epoca la chiesa condannava le eresie che avevano a che fare con la magia, l'astrologia, l'idolatria e l'aruspicina (l'oracolo ottenuto dalle interiora degli animali). Inoltre i vescovi che abbandonavano la residenza per molto tempo, senza un valido motivo, rischiavano di passare guai seri.

Nelle zone dell'entroterra e sui monti, ossia nei luoghi distanti dal centro urbano e quindi lontano dall'occhio vigile del vescovo, venivano ancora praticati riti pagani, con conseguente idolatria.

San Benedetto, che visse qualche decennio prima di San Catello, fondò il monastero di Montecassino proprio sul posto ove sorgeva un tempio pagano in piena attività.

Che Catello e Antonino si recassero sui monti a officiare la santa messa può trovare una spiegazione proprio nel fatto che in quei luoghi isolati persisteva qualche focolaio di paganesimo. Inoltre l'Anonimo narra che proprio si queste altitudini i due Santi avrebbero avuto la visione mistica dell'arcangelo Michele, che li avrebbe esortati a costruire in loco un oratorio in suo onore.

Ora un avvenimento così straordinario non ci stupisce più di tanto. Basti pensare che all'epoca le visioni angeliche erano diffuse sia in Occidente che in Oriente. Due esempi per tutti.

A Roma San Gregorio Magno, non appena eletto Papa, nel 590, per debellare la peste bubbonica che in quei giorni s'era abbattuta sull'Urbe, ordinò una solenne processione alla quale parteciparono decine di migliaia di fedeli. Quando il corteo giunse in prossimità del mausoleo d'Adriano, il Papa, che lo guidava, vide sulla cima del monumento l'arcangelo Michele nell'atto di riporre nella guaina la spada. Era il segno che la pestilenza era finita. Da quel giorno il mausoleo d'Adriano mutò nome in quello di Castel Sant'Angelo.

Il profeta dell'Islam, Maometto, ebbe nel 610 la rivelazione della nuova religione dall'arcangelo Gabriele, che gli apparve di notte mentre dormiva in una grotta poco distante dalla Mecca.

Ora volendo noi ricercare una spiegazione più terrena al perché Catello volesse costruire un tempio dedicato all'arcangelo Michele sul Faito, dobbiamo soffermarci un attimo sulla situazione geografica, religiosa e militare di Stabia all'epoca.

Benché presidiata dalle truppe bizantine, Stabia era costantemente minacciata dalle scorribande longobarde, che provenivano dall'entroterra e dalle incursioni dei pirati saraceni, che arrivavano dal mare. I longobardi erano molto superstiziosi, credevano alle streghe e adoravano le vipere. Quando cominciarono ad avere dimestichezza con la religione cattolica, ancor prima di convertirsi, rimasero fortemente impressionati dalla figura di Satana, della quale presero ad avere gran timore. Restarono, invece, letteralmente affascinati dall'arcangelo Michele. Tanto che, dai primi sintomi di benevola ammirazione, si passò a vera e propria venerazione.

Il principe delle milizie celesti, con lancia e scudo, evocava l'immagine di un antico eroe longobardo. Egli divenne così il loro Santo protettore.

 

Il cronista Paolo Diacono ci racconta che i pirati del Mediterraneo tentarono nel 647 di saccheggiare il tempio di San Michele sul Gargano, ma furono totalmente sterminati dai longobardi, comandati dal duca Romualdo, che si erano precipitati in soccorso del loro Santo protettore.

Stando così le cose, ci è più facile intuire il motivo per cui San Catello avesse elaborato, col suo progetto di edificare un tempio dedicato a San Michele sul Faito, un arguto piano di difesa per la sua diocesi, degno della più alta strategia diplomatica.

Il baluardo sacro, infatti, posto sulla più alta cima del Faito, poteva servire a scoraggiare i pirati saraceni dallo sbarcare sulle coste stabiesi, per timore che i longobardi accorressero in difesa del loro Santo e, allo stesso tempo, avrebbe senz'altro mitigato l'atteggiamento degli stessi longobardi, i quali, superstiziosi com'erano, si sarebbero guardati bene dal farsi aizzare contro le ire dell'arcangelo dal vescovo del luogo.

Purtroppo Catello, per il momento, dovette rinviare il suo progetto, poichè per l'accusa di eresia fu costretto a recarsi a Roma. Il Pontefice lo aveva convocato per meglio chiarire la sua posizione. In attesa che l'istruttoria fosse completata, Catello fu alloggiato in un convento.

Per la verità l'Aninimo Sorrentino parla di carcere, ma col Di Capua siamo concordi nel ritenere inconcepibile che questa prassi fosse riservata ai vescovi ancor prima di essere giudicati.

Sebbene non vi siano prove certe che attestino l'identità del Papa che chiamò Catello a Roma e del Papa che lo prosciolse da ogni accusa, pur molti indizi c'inducono a ritenere che essi fossero rispettivamente Pelagio II (579-590) e Gregorio Magno (590-604).

Ma ritorniamo per un attimo all'Anonimo Sorrentino. Egli narra che Catello, durante il periodo in cui alloggiava in un convento romano, predisse all'ecclesiastico di fiducia del Papa, al quale era stato affidato, che egli stesso sarebbe diventato Papa.

Ora solo un personaggio importante che godeva di grande popolarità, benché vivesse in convento, poteva aspirare alla cattedra di Pietro. E chi poteva essere, prima dell'anno 600, se non Gregorio Magno?

Gregorio apparteneva a una ricchissima famiglia romana. Dopo aver ricoperto la prestigiosa carica di Prefectus Urbis si fece monaco benedettino. In seguito, ereditata gran parte dell'immensa fortuna familiare, ne distribuì un terzo ai poveri e col rimanente finanziò la fondazione di sei monasteri. Per sè tenne solo il palazzo sul monte Celio, dove era nato, e che trasformò in un convento.

Dopo il 578 il Papa lo spedì come apocrisario a Bisanzio, ove rimase circa sei anni. Fu richiamato in Roma nel 585. Appena giunto, si ritirò in convento, ossia nel suo palazzo sul Celio, da dove cinque anni più tardi, quando il Pontefice morì, fu tratto dal clero e dal popolo, che lo acclamò Papa. Correva l'anno 590.

Se si accetta l'ipotesi di Gregorio Magno, Catello deve essersi recato a Roma tra il 585 e il 590, ovviamente crediamo più sul finire di questo quinquennio, e alloggiato nel convento, che era poi la dimora di Gregorio.

 

Una volta eletto Papa, Gregorio, che aveva avuto modo, durante la convivenza con Catello, di rendersi conto delle sue indubbie qualità pastorali e considerate le accuse di eresia prive di fondamenta, lo reintegrò nella sua sede vescovile.

Che il chiodo fisso di Catello fosse l'edificazione del tempio dedicato all'arcangelo Michele lo dimostra il fatto che al Papa egli chiese tanto piombo quanto poteva bastare per ricoprirne il tetto, quando il Santo Padre si offri di dargli tutto quello che avrebbe chiesto.

E, così, il tempio fu edificato.

 

 

2. San Catello. Riflessioni e nuove ipotesi.                                                                                                               Giuseppe D'Angelo

Le affermazioni, contenute nella prima parte del presente studio, possono così sintetizzarsi.

San Catello è vissuto sul finire del VI secolo, all'epoca del papa San Gregorio Magno.

Che il successore Lorenzo provvide alla sua definitiva sepoltura nella chiesa dei Santi Giasone e Mauro, la più antica chiesa stabiese. In tale occasione Egli fu proclamato Santo.

Che la predetta chiesa fosse officiata dai padri dell'ordine di San Benedetto.

Conclusioni solo in apparenza rivoluzionarie, ma basate, invece, su documenti ed ipotesi gia parzialmente sviluppate da altri studiosi e in particolar modo dal Di Capua.

Per quanto riguarda la prima ipotesi, e cioè che San Catello sia vissuto nel VI e non nel IX secolo, ci soccorrono proprio gli studi del Di Capua e la tradizione, oltre che la storia. Riprenderemo qui soltanto un concetto espresso dal Di Capua, quello contenuto nell'Anonimo Sorrentino.

Questo ignoto autore, monaco benedettino vissuto a Sorrento nel IX secolo, così apre l'agiografia di Sant'Antonino: "Quo tempore Langobardorum ferina immanitas Campaniae Provinciam hostili gladio et incendio vastavit, Sanctus iste noster Patronus Antoninus ad has partes advenisse, et Episcopo Stabiensis Ecclesiae dicitur adhaesisse." Da parte nostra riportiamo lo stesso avvenimento ripreso dall'antichissimo Lezionario della Chiesa sorrentina: "Tempore, quo immanis Langobardorum feritas et ferini Winilorum immanitas, omnia fere Campaniae oppida igne succenderet, ferroque devastaret ..."

Orbene anche una superficiale lettura dei testi ed una modesta conoscenza degli avvenimenti storici fanno capire che il periodo indicato nei due manoscritti è quello dell'inizio dell'epopea longobarda, di religione ariana ed ostili al cristianesimo romano. E' il periodo nel quale questo popolo barbaro distruggeva tutto ciò che riguardava il cristianesimo, in primo luogo chiese e conventi. Perciò il benedettino Sant'Antonino, fuggendo dal suo monastero distrutto, si rifugiò a Stabia presso il santo vescovo Catello. Senza contare che il periodo ariano dei Longobardi fu di breve durata.

Difatti con il matrimonio del loro re Agilulfo, duca di Torino, con la cattolica regina Teodolinda di Baviera, vedova del defunto re longobardo Autari, avvenne la conversione in massa al cristianesimo sul finire del 603. L'occasione fu il battesimo di Adaloaldo, figlio di Agilulfo e Teodolinda, il primo figlio di un re longobardo ad essere battezzato secondo il rito della chiesa cattolica. Avvenimento all'epoca rivoluzionario, ma capolavoro politico del Papa benedettino San Gregorio Magno, servus servorum Dei, come egli stesso amava definirsi.

Questo fatto, di portata storica, "significava la sicurezza per le chiese cattoliche esistenti, il sorgerne di nuove, la sicurezza dei monasteri, la possibilità di un'opera propagandistica non perseguitata".

Quindi non possiamo non essere d'accordo con il Di Capua, quando afferma che chi si ostina a porre San Catello al IX secolo, "dopo la pubblicazione di tanti documenti, dopo i molteplici studi di storici italiani e stranieri ... darebbe prova della più crassa ignoranza".

Anche sul vescovo successore di San Catello non si dovrebbero più nutrire dubbi. La certezza è data da una lapide sepolcrale che, però, è stata al centro di secolari, quanto inutili, polemiche, che qui di seguito sintetizzeremo.

Essa fu riportata per primo dal Capaccio (1607), anche se è già menzionata in un manoscritto, tardo cinquecentesco, attribuito al De Rosania (1599-1600). Filippo Anastasio, arcivescovo di Sorrento, la ritenne falsa, insieme col nipote Ludovico Agnello Anastasio, anch'egli arcivescovo di Sorrento; mentre la ritennero autentica il Milante ed il Martucci.

Ma che cos'era e cosa diceva tale iscrizione?

Essa era posta sul coperchio del sepolcro del vescovo Lorenzo, pastore della diocesi stabiese tra il 600 ed il 612 d.C., coperchio utilizzato nei principi del sec. XVII come marmo d'altare nella cappella dei Cimmini, nella sacrestia della cattedrale di Vico Equense, oggi piu' non esistente. A parte le dotte polemiche sul perchè della sepoltura di un vescovo stabiese in Vico Equense (ma certamente si tratta di un marmo di risulta), vorrei soffermare l'attenzione del lettore sull'iscrizione, vista di persona ed esattamente riportata dal solo Giuseppe Alvino; eccone il testo:

In Hoc tumulo requiescit V.B.

Laurentius Epis.s Sce.s Eccles.s Civit.s

Stabiensis, qui vixit annis pl.s min.s

LXX. Sidet in Epe.s copatum ann.s

XIII. Dep.s eius die Giii Kal.s

Martiarum

in dictione XV Imp.s Eracleo Aug.s

ann.s secundo.

La data dovrebbe corrispondere al 22 febbraio (bisestile) dell'anno 612 (indizione 15a); difatti Eraclio fu incoronato imperatore d'Oriente il 5.10.610, quindi "l'anno secondo" della lapide corrisponde al 612).

Sull'autenticità di questa lapide si sono cimentati vari autori, ritenendola, a seconda della tesi che volevano dimostrare, vera o falsa. Nessuno però ha notato due elementi di decisiva importanza.

Il primo a riportarla fu il Capaccio, a cui fu segnalata dall'erudito stabiese Giovanbattista de Rosania. Ebbene il Capaccio non trascrisse esattamente, ove afferma che il vescovo Lorenzo visse "più o meno quarant'anni", ignorando che all'epoca, per essere eletti vescovi, bisognava avere come minimo cinquant'anni. Il motivo del suo errore ci è rivelato dall'Alvino che testualmente afferma: "L'inscrittione di proposito veduta nel sudetto marmo si è posta fedelmente qui sotto; se bene altrimenti per non averla veduta la pone il Capaccio." Difatti l'età indicata nella lapide, correttamente riportata dall'Alvino per averla veduta di persona, è quella di settantanni. E ancora, se l'Alvino avesse affermato il falso, e che quindi tale lapide a Vico Equense non c'era, chiunque avrebbe potuto contestarlo. Ma nessuno lo fece.

In secondo luogo va evidenziato che gli anni della lapide vengono riferiti al regno dell'Imperatore romano d'Oriente, segno questo inequivocabile e prova documentale dell'appartenenza di Stabia al ducato bizantino e non al regno longobardo. Della città di Stabia, si badi bene, e non del solo territorio, come alcuni hanno ipotizzato, affermando che all'epoca una vera e propria città non esisteva. La lapide dice chiaramente "Vescovo della città di Stabia": "Episcopus sanctae Ecclesiae civitatis stabiensis"; certo non una città come noi oggi la concepiamo, ma una struttura urbana con una organizzazione civile e religiosa.

Quanto, poi, alla pretesa falsità della lapide, oltre alle prove indicate dal Milante e dal Martucci, basti considerare che nella vicina Sorrento, per lo stesso periodo, è riportata dal Capasso la lapide sepolcrale di Amando, che fu vescovo sorrentino dal 600 al 617 d.C., del tutto simile alla nostra.

Ma cosa dimostra questa lapide?

Dimostra che Lorenzo fu vescovo stabiese per tredici anni, dal 600 al 612. Che fu successore di San Catello e che quindi il nostro patrono morì tra il 599 ed il 600. Che fu durante il suo episcopato che il vescovo Catello fu proclamato Santo.

A tal epoca la competenza a proclamare un Santo apparteneva al clero e al popolo locale, senza alcuna ingerenza romana. Pertanto dopo alcuni anni dalla morte di Catello, il suo corpo fu esumato, e si procedette con il rito della "translatio" ed "elevatio". Cioè fu tolto dalla tomba e posto in un luogo elevato sull'altare maggiore della sua chiesa.

Quale chiesa? Di certo quella di Giasone e Mauro, la più antica che si conosca. Ed è lo stesso Di Capua che ce lo suggerisce, quando, descrivendo la chiesa di San Biagio, l'antico oratorio dei Santi Giasone e Mauro, afferma che "in fondo all'abside, dove poi fu costruito l'altare, si vedono i resti di un'antica tomba, nella quale furono rinvenute delle ampolle, contenenti liquidi odores ... Quale personaggio illustre venne sepolto in quel posto, che, certamente, era il più onorifico di tutto il sacro recinto?".

Noi azzardiamo l'ipotesi che ad essere sepolto in quel posto fu il nostro protettore San Catello, e ciò in base anche ad altri elementi già segnalati nella prima parte di questo studio.

D'altronde una tale ipotesi non deve meravigliare più di tanto. Difatti per più di due secoli, dal vescovo Falcoia al vescovo Sarnelli, tutti i presuli stabiesi hanno tentato di trovare il corpo, o meglio, il sepolcro del nostro Santo. Ma lo hanno cercato nei posti sbagliati: a Sorrento, a Campagna (SA) e, con molta caparbietà, persino sul monte Faito, non in una chiesa in città, ove era molto più probabile ritrovarlo. Ma è mai possibile pensare che nel VI secolo agli stabiesi poteva venire in mente di seppellire San Catello, o chiunque altro prelato, sulla cima di un monte alto più di 1400 metri?

Noi siamo d'accordo col Di Capua, quando afferma che «ogni ricerca ed ogni tentativo avrà scarsa probabilità di successo, se non si appoggia a criteri esatti e a documenti storici attendibili» o, quanto meno, affermiamo noi, a riflessioni basate su fatti storici.

Perciò noi riteniamo che fosse stato sepolto sopra l'altare maggiore dell'antica chiesa benedettina dei Santi Giasone e Mauro, l'attuale grotta di San Biagio, sia per i motivi addotti nella prima parte di questo studio, ma anche per le seguenti considerazioni.

In primo luogo una ricerca specifica in questo luogo non è stata mai fatta. In secondo luogo le osservazioni del Di Capua e la notizia da lui data circa il ritrovamento di un sepolcro sopra l'altare maggiore sono davvero illuminanti in tal senso.

Inoltre bisogna considerare che in tale periodo (VI secolo) i monasteri benedettini sorgevano "per proteggere le reliquie del santo patrono o comunque di un santo particolarmente onorato".

Difatti nella vicina Sorrento il monastero di San Renato sorse per custodire il corpo del Santo, antico vescovo e protettore della città, corpo che, al dire del Capasso, fu ritrovato all'inizio del 1600 sotto l'altare maggiore, in una piccola cassa di piombo di quattro palmi. L'analogia con quanto segnalato dal Di Capua per la grotta di San Biagio è indicativa.

Ma perché proprio in questa chiesa e non in un'altra?

Perché, semplicemente, non vi è alcuna memoria di un'altra chiesa precedente a questa nella storia della città. Anzi non è certo azzardato affermare che questa chiesa dovette essere la prima ad accogliere una comunità cristiana, dato che per quei tempi non si può parlare di cattedrale, quale noi oggi la intendiamo. Se vi fu una Cattedrale, certamente sorse dopo i due secoli di spopolamento della città (649-850), epoca in cui non vi è più memoria di vescovi stabiesi. E secondo gli antichi memorialisti stabiesi sorse sempre a Varano, nel luogo detto Vetere.

La nostra precedente affermazione, cioè che questa chiesa sia stata la prima e più antica della città, trova oggi conferma in un recente ritrovamento archeologico, che qui per primi riveliamo.

Qualche anno fa, durante i lavori di consolidamento della collina di Varano, nei pressi della Grotta di San Biagio, fu ritrovata una lastra tombale, di cm. 1,50 per 40 circa, con la seguente inedita iscrizione:

+ HIC REQUIESCIT REDIMTs

SERBUS DEI QUI CON CUNIUGE SUA BAR

BARA CONBERSI SUNT TOLLENDO ROSTINAS

DESUPER IPSA ORATURIA QUI VIXIT ANNOS XXX

La traduzione potrebbe essere:

"Qui riposa Redento, servo di Dio, che si convertì insieme con la sua sposa Barbara, sradicando la mala pianta (rectius:il paganesimo) proprio da questi Oratori, e che visse trent'anni."

L'espressione "tollendo rostinas desuper ipsa oraturia" è la chiave di tutta la lapide. Rostinas, termine ignoto al latino classico, deriverebbe da "rus ruris", da cui "rustum rusti", nel senso di rovo, luogo spinoso, che, unito all'espressione dialettale "rustino", cioè pianta selvatica infestante, potrebbe significare che il nostro Redimito, cioè Redento, avesse redento (ecco spiegata anche l'origine del nome) un luogo di culto pagano, estirpando la mala pianta del paganesimo, e trasformando un antico tempio pagano in un oratorio cristiano. E molta letteratura, compreso il Milante, il Cosenza e il Di Capua, ipotizza che la Grotta di San Biagio, da tempio pagano, fosse stato dai primi cristiani invertito in luogo di culto, in oratorio, in una chiesa. Anche il termine "oratorio" utilizzato dalla lapide è indicativo dell'epoca. Difatti l'anonimo scrittore sorrentino della vita di Sant'Antonino afferma che ai due Santi fu ordinato dall'Arcangelo Michele di costruire un oratorio in suo onore. Cioè viene usato il termine oratorio e non chiesa.

Se questa interpretazione fosse esatta -cosa molto probabile- ci troveremo di fronte ad una delle più importanti lapidi mai ritrovate sul nostro territorio, che ci darebbe la prova documentale dell'evoluzione del sito Grotta di San Biagio o più esattamente, come di qui a poco vedremo, oratorio dei Santi Giasone e Mauro.

Questo oratorio diventa così il centro spirituale della città, primo ed unico luogo di culto, dove officiarono i vescovi Orso e San Catello, e dove, probabilmente, il nostro patrono fu sepolto, come già detto.

Non solo. La lapide potrebbe anche dimostrare l'esistenza di un sepolcreto cristiano nato attorno a quest'oratorio. Difatti questa non è l'unica lapide trovata in questo sito. Il C.I.L. riporta un'altra lapide cristiana, dell'anno 539, sconosciuta a tutta la letteratura locale e, a quanto ci risulta, ignorata da tutti, qui scoperta nel settembre del 1868.

Si tratta di una lapide tombale, ritrovata sul sepolcro, della cristiana Alexandria che visse quarant'anni e morì nel quinto anno di consolato di Paulino juniore (539 d.C.).

Affinchè non resti più a lungo dimenticata, è parso utile trascriverla:

+ HIC REQVIESCs IN

PACs B Ms ALEXAN

DRIA QVI VIXIT ANNs

PL M X.L. DPs

EIVS G KL MR

TIAS PCs PAVLINI IVNs

V.C.

Per la verità il Di Capua non concorda in pieno con la nostra tesi, quando afferma che il cimitero cristiano dell'epoca di San Catello si trovava nell'attuale piazza del Municipio, pur ammettendo che presso la Grotta di San Biagio si trovasse un altro "coemeterium", anche se "nelle antiche pitture che adornano questa grotta non c'è alcun accenno a un culto ivi prestato a S. Catello; il che non si spiega se il Santo fosse stato sepolto lì." Ma la tesi sostenuta nella prima parte di questo studio dimostra che in quest'oratorio vi è la prima iconografia del nostro protettore, e le lapidi riportate precedono addirittura la sua epoca.

Che, poi, l'oratorio dei Santi Giasone e Mauro fosse stato in seguito affidato all'ordine benedettino, non vi sono dubbi. Basta il nome dei Santi a cui è dedicato e gli affreschi di Santi benedettini all'interno.

Ed è giunto anche il momento di chiedersi da dove sia venuto fuori il nome di Grotta di San Biagio.

Con tutto il rispetto che nutriamo verso questo Santo, dobbiamo però affermare che si tratta di una volgarizzazione popolare del nome Giaso, cioè Giasone che, insieme con San Mauro, era il patrono di questa chiesa. Difatti anche in paleografia le due lettere iniziali di Giaso e Biaso sono simili. Con il trascorrere dei secoli, con il venir meno di questa chiesa come luogo di culto, nella parlata volgare il curioso nome Giaso divenne il più noto Biaso cioè San Biagio.

D'altronde ancora nei secoli XIV e XV il luogo è detto "ai santi Giasone e Mauro"; soltanto in documenti cinquecenteschi comincia a comparire il nome Biaso, si noti non Biagio.

[Da notare (tra parentesi) che un noto millantatore, ascoltando tale ipotesi durante una mia conferenza, e approfittando del fatto che io non l’avessi ancora pubblicata, se ne é attribuita la paternità. Miserie umane].

Infine vorrei esporre un ultimo argomento che testimonia come il corpo di San Catello fosse stato affidato ab origine alla cura e discrezione dei benedettini.

E' storicamente accertato che l'Ordine benedettino possedesse molti monasteri, chiese, celle e grancie nel nostro territorio. Segnaliamo all'uopo i recenti studi di Antonio Vuolo e Vincenzo Russo, dai quali si evince chiaramente tale presenza. In particolare, per la nostra città, vi è da dire che oltre all'oratorio dei Santi Giasone e Mauro, e Sant'Angelo "in insula Rubiliana", viene segnalato un altro oratorio detto di San Benedetto, sotto al castello di Lettere e la chiesa di San Severino, di cui è cenno in un documento del 1283, sulla collina del Solaro. Il vero e proprio monastero benedettino stabiese sorgeva invece in riva al mare, nei pressi dell'attuale piazza del Municipio, nei locali ove oggi vi sono le scuole elementari. La prova ci è data da una relazione del 1664 del padre Bonaventura da Mercogliano, il quale afferma che il convento di San Francesco in piazza Municipio "... olim Benedictinorum Patrum habitaculum fuit, argumento (sumpto) ex veteri refectorio, ubi tunc eorum templum erat, in quo sancti Benedectina Religione undequaque depicti olim conspiciebantur".

Di poi nell'anno 1326 passò dai benedettini ai Minori Conventuali e nel 1423 da questi ai Minori Osservanti.

Nel 1614 si seppe che i sorrentini, il 15 agosto, erano riusciti ad avere dai padri Conventuali di Itri una reliquia del nostro Santo protettore, e precisamente l'osso mascellare del cranio. Tanto fecero gli stabiesi che il 9 ottobre del 1616, mercé l'interessamento del nobile stabiese Piergiovanni de Nocera, riuscirono ad avere una parte del cranio di San Catello, sul quale si leggevano, guarda caso "in caratteri longobardi antichissimi", le seguenti parole ".stud est caput B. Catelli E.... Stabiensis".

Spontanea sorge una domanda: che ci faceva il cranio di San Catello nel monastero di Itri?

Al di la delle zoppicanti spiegazioni date da altri autori, che non condividiamo, la risposta, alla luce dei precisi fatti storici dianzi narrati, potrebbe essere molto semplice. Il corpo del nostro Santo, fu per alcuni secoli custodito nell'oratorio dei Santi Giasone e Mauro dai benedettini, che probabilmente ne staccarono una parte consistente del cranio portandola nel loro convento sorto a piazza Municipio. Quando lasciarono questo convento, consegnarono la reliquia ai Conventuali, che a loro volta, lasciato il convento di Castellammare nel 1423, si trasferirono, insieme con la reliquia, in quello di Itri. Ecco perché i sorrentini, prima, e il de Nocera, dopo, la ritrovarono nel convento laziale.

Questa è una spiegazione perfettamente logica o, perlomeno, a noi così sembra. Altrimenti per quali segreti e nascosti e improbabili canali poteva la reliquia essere giunta sino a Itri?

In conclusione si ipotizza che San Catello sia vissuto nel VI secolo, che sia stato sepolto nella cosiddetta Grotta di San Biagio, ove vi è la sua più antica raffigurazione, che lì vi fosse un coemeterium cristiano, che le sue spoglie furono affidate ab initio all'ordine benedettino.

Queste le nostre ipotesi. La discussione è aperta.

Siamo così giunti al termine del nostro studio, che non vuole, né può, porre la parola fine a queste problematiche.

Noi auspichiamo che, invece, possa costituire uno stimolo nel provocare nuovi studi e nuovi approfondimenti sul problema complessivo dei beni culturali nella nostra città, suscitando su di essi un rinnovato interesse, specialmente in coloro che istituzionalmente sono preposti alla loro salvaguardia e valorizzazione. Ad esempio un complesso monumentale, come la cosiddetta Grotta di San Biagio, così ricco di storia, arte e tradizioni, non può essere abbandonato per quarantanni e, così, scomparire dal ricordo della gente e dagli itinerari culturali della città. Un complesso di questa portata potrebbe costituire, da solo, un importante punto di riferimento in un contesto culturale e turistico comprensoriale. Ma andrebbe restaurato, studiato e valorizzato.

L'impoverimento culturale e spirituale è peggiore di quello materiale.

Noi riteniamo, quindi, che il possibile rilancio produttivo e turistico del nostro territorio non potrà non partire dai nostri preziosi giacimenti culturali. Una risorsa su cui investire nei prossimi anni.

© A. Acampora e G. D'Angelo 1994 - 2007

 

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